La Società italiana autori ed editori e il Ministero dei beni e delle attività culturali hanno imposto, per oltre un lustro, a Pubblica amministrazione, imprese e liberi professionisti di pagare decine di milioni di euro senza averne diritto. E’ questa la sintesi – l’unica possibile – della decisione con la quale la Corte di Giustizia dell’Unione europea, lo scorso 22 settembre ha accolto dichiarato l’illegittimità della disciplina italiana in materia di copia privata nella parte in cui impone di versare l’ormai famoso “equo compenso” anche a chi acquista supporti e dispositivi per uso professionale.

Nessun dubbio secondo i giudici di Lussemburgo che, in questi casi, lo Stato non possa pretendere, nell’interesse dei titolari dei diritti d’autore, nessun compenso e ciò per la semplice ed elementare ragione che non è verosimile che i supporti e dispositivi siano utilizzati per effettuare copie private.

E non basta a rendere lecita una disciplina, che lecita non è, il fatto che le regole italiane attribuiscano alla Siae il compito di negoziare, caso per caso, delle convenzioni attraverso le quali esentare dall’obbligo di versamento del compenso talune categorie di soggetti e quello di governare il sistema dei rimborsi. Non è – ed i giudici della Corte lo scrivono senza esitazioni – un sistema che garantisca adeguata effettività nelle esenzioni e nei rimborsi e senza effettività la disciplina sulla copia privata diventa sperequata perché la bilancia – proprio come accaduto in Italia – finisce con il pesare troppo sulle spalle degli utilizzatori ed arricchire ingiustificatamente i titolari dei diritti.

La Sentenza della Corte di Giustizia si riferisce al decreto firmato nel dicembre del 2009 dall’allora ministro dei Beni e delle Attività culturali Sandro Bondi ma, considerato che – pur consapevole della questione e del contenzioso pendente dinanzi ai giudici europei – del tutto inspiegabilmente il ministro Franceschini nel 2014, nel firmare il nuovo decreto, ha ritenuto di seguire le orme del suo predecessore, ora è l’intero sistema della copia privata a tremare e Ministero e Siae rischiano di ritrovarsi bussare alla porta decine di migliaia di imprese e professionisti che, a buon titolo, potrebbero chiedere il rimborso di un fiume di denaro ingiustamente confluito nelle casse della Società italiana autori ed editori e da quest’ultima, almeno in parte, ripartito tra gli aventi diritto.

E’ un autentico ciclone quello in arrivo. E per coglierne l’entità è sufficiente ricordare che solo nel 2015, la Siae ha incassato a titolo di compenso per copia privata quasi 130 milioni di euro, quasi 78 nel 2014, più di 67 nel 2013 ed oltre 72 milioni nel 2012. Parte di questa montagna di denaro è stata indiscutibilmente versata da Pubbliche amministrazioni, imprese e libere professionisti che ora hanno, evidentemente, diritto a vedersela restituire. Stiamo parlando di decine di milioni di euro.

E c’è da chiedersi – e dovrebbero chiederselo in particolare le Autorità che per legge hanno la vigilanza su Siae e ne controfirmano il bilancio – se la Società italiana autori ed editori, negli ultimi anni abbia effettivamente accantonato risorse a sufficienza per far fronte alla pioggia di rimborsi in arrivo.

Se così non fosse, infatti – anche a prescindere dall’evidente responsabilità di chi avrebbe dovuto ispirare la gestione della società a criteri di adeguata prudenza e di chi avrebbe dovuto vigilare sul fatto che ciò accadesse – per la Società italiana autori ed editori potrebbe essere un duro colpo economico e finanziario. Anche perché, se in questa brutta storia c’è una certezza, è che nessuno né in Siae né al Ministero dei beni e delle attività culturali può seriamente dirsi sorpreso della decisione della Corte di Giustizia.

E sono, d’altra parte, gli stessi giudici del Lussemburgo che nel respingere l’eccezione della Siae che aveva chiesto loro di limitare, al futuro, gli effetti della decisione – ovvero di escludere che chi avesse versato quanto non dovuto potesse chiederlo indietro – mettono nero su bianco che “la Siae non può assolutamente sostenere di aver maturato la convinzione che la normativa in esame nel procedimento principale fosse conforme al diritto dell’Unione Europea”.

Nei mesi che verranno, dunque, milioni di euro, in un modo o nell’altro, dovranno lasciare i forzieri della Siae e ritornare nelle tasche di pubbliche amministrazioni, imprese e professionisti che li hanno indebitamente versati dal 2010 ad oggi. E certo sarebbe auspicabile che lo Stato faccia lo Stato – terzo ed imparziale – ed ordini alla Società italiana autori ed editori di restituire spontaneamente il maltolto senza costringere le singole amministrazioni, imprese e professionisti a far cause milionarie per riavere indietro ciò che inequivocabilmente spetta loro.

Speriamo vada così perché è già triste dover constatare che per oltre un lustro chi ha scritto le regole, anziché restare imparziale, si è lasciato tirare per la giacchetta da una parte, ignorando e travolgendo diritti ed interessi dell’altra parte.

Nota di trasparenza: nonostante ogni sforzo di obiettività e nonostante il pezzo sia basato su una Sentenza è corretto che i lettori sappiano che ho assistito Altroconsumo dinanzi alla Corte di Giustizia nel procedimento all’origine della decisione

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