Come ho più volte dichiarato, nutro sincero interesse alla crescita politica dei Cinquestelle e provo personale amicizia per alcuni ragazzi e ragazze che nel Movimento militano; mantenendo un entusiasmo e un impegno che le impietose repliche della quotidianità ancora non mi sembra abbiano prosciugato. D’altro canto, all’alba dei settant’anni ho tracannato tanta di quella politica da non potermi bere le ingenuità semplificatorie e i fideismi rituali che ne incastonano la subcultura. Per questo osservo con apprezzamento l’attenzione costante alla realtà che si direbbe accompagni i primi passi della giunta torinese. Non i pasticci romani. E mi piacerebbe che venisse essudato il settarismo staliniano che circonda la vicenda parmigiana. Insomma, come direbbe un odiato professorone, hic Rhodus, hic salta. Ergo, è giunto il momento di acquisire cultura del cambiamento, evolvendo dalla subcultura del millenarismo sospettoso. Se non ferisco troppo orecchie credenti, “cultura critica”. Come diceva quel tale, “l’uscita dalla minorità autoinflitta”.
Mi rendo conto che si tratta di un’operazione intellettuale difficile per chi si è avvicinato per la prima volta alla politica attraverso il Movimento come se fosse una conversione religiosa; o per chi vi arrivava provenendo (e non mi risulta trattarsi di pochissimi soggetti) da un’esperienza simil-carismatica quale il dipietrismo.
Per questo considero un barometro importante dello stato di maturazione complessivo pentastellare il dibattito che si svolge in questo sito, di cui ho registrato alcune piegature parossistiche proprio nella discussione altamente divisiva sulle Olimpiadi a Roma. Anche nel mio blog. Che ora passo in rassegna con chi è interessato:
1. Grandi Eventi, sì o no: il tema scatena in molti reazioni esasperate, che inducono conclusioni manichee: “si tratta del male assoluto, che va rifiutato per scelta di salvazione”. Ebbene, non è così. Esiste un’ampia casistica di città che hanno utilizzato l’opportunità per strategie di rigenerazione o rilancio (ma non è questo il caso dell’Expo milanese, i cui bilanci consuntivi restano avvolti nel mistero: spiacente, ma non concordo con chi in questa sede ha sostenuto il contrario). È pura questione di contesto, come il possibile successo di Parigi 2024 potrà dimostrare. Il tema su cui ragionare (le difficoltà ambientali), non la demonizzazione fanatizzata della cosa in sé. E poi sta roba del “mattone”. Io il museo Guggenheim di Bilbao lo vorrei in ogni nostra città.
2. Virginia, ma anche Dibba, Luigino, Beppe ecc. hanno sempre ragione: ebbene no! Ad esempio la gestione specifica e generale della luna di miele con i romani da parte della sindaca è stata confusa, ondivaga e flebile. Non ha mai dato l’impressione di un polso saldo alla guida. Come deludenti sono state le prove del nuovo gruppo dirigente messo in campo (il direttorio). Anche il Garante ha dato ampi segni di incasinamento mentale. Affermare il contrario non è supportare il proprio campione (o campionessa), bensì penetrare in un circuito di totale alienazione che anestetizza il giudizio ragionato. Impedisce di migliorare emendando le manchevolezze.
3. Ho goduto quando il Malagò è stato “vaffato” (remake del Bersani svillaneggiato in streaming): questo compiacersi per lo sgarro a un presunto potente emette un così evidente sentore di spirito plebeo che dovrebbe far vergognare all’istante chi presume di far parte di un progetto rigenerativo dell’Italia. Se la stagione del vaffa aveva una valenza mediatica agli albori, ora ben altri sono i toni che si convengono a chi vuole governare un Paese di per sé incanaglito.
Ecco – dunque – alcuni piccoli esempi del ritardo nel consolidamento di un maturo approccio di governo al cambiamento, che va colmato. La sindrome della tricoteuse (quella che faceva la calza in attesa dei ghigliottinamenti) ormai è un retaggio da estirpare. Non è prendendo a pernacchie Renzi che si esprime una cultura di governo alternativa alle sue insulse spacconate. O insultando il blogger che invita a praticare l’uso critico della ragione.