Il calendario segnava 26 settembre 1976. Era una domenica mattina, una qualunque. I soliti riti di paese: la messa, le ‘paste’, il pranzo con i parenti. A Manfredonia, provincia di Foggia, funzionava così. Anche Nicola Lovecchio, terminato il turno, sarebbe tornato alla sua domenica di sempre. Invece quel giorno divenne l’inferno. Per Nicola e altre decine di operai dell’Anic EniChem, per gli agricoltori e gli allevatori del rione Monticchio, il più vicino allo stabilimento petrolchimico costruito a 2 chilometri dal centro abitato, e per tutta la città. Tra le dieci e le venti tonnellate di anidride arseniosa si riversarono su Manfredonia a causa dell’esplosione della colonna di decarbonatazione dell’urea. Si tratta(va) della colonna di lavaggio dell’anidride carbonica dell’impianto per la produzione dell’ammoniaca. Erano circa le 10 quando arrivò il ‘boom’: la torre sventrata, la nube tossica che inizia a galoppare.

Centinaia di capi di bestiame vennero abbattuti. Furono solo i primi a cadere. Già il giorno dopo gli operai erano di nuovo nello stabilimento per pulire, aggiustare e ripartire nonostante l’area fosse contaminata. Nicola, assunto cinque anni prima come capoturno del reparto insacco magazzino fertilizzante, come decine di suoi colleghi respirò i veleni, che nel frattempo avevano viaggiato verso i campi e la città. Anni più tardi, iniziarono a manifestarsi i primi effetti dell’incidente e più in generale del presunto modus operandi dell’azienda nel corso dei decenni di attività.

Non solo le intossicazioni acute al momento dello scoppio, l’inquinamento dei campi, l’arsenico respirato da migliaia di persone. No: gli operai, per primi ma non gli unici, si ammalarono. Uno, più uno, più uno. Nicola, neanche cinquant’anni e non fumatore, nel 1994 viene operato per un adenocarcinoma polmonare. Si convince che la funzionalità respiratoria, ormai compromessa, è stata danneggiata dall’ambiente di lavoro. E indaga, per quel che può. Nel suo stesso reparto rintraccia 6 colleghi deceduti per neoplasie polmonari o intestinali. Altri venti ne conta negli altri settori dell’EniChem di Manfredonia. Nel settembre 1996, con un esposto depositato presso la Procura di Foggia, inizia la lotta degli operai contro il colosso che gli aveva dato pane e veleno.

La vicenda giudiziaria si è chiusa il 14 marzo di 18 anni dopo con il pronunciamento della Cassazione e il rifiuto di rimettere il processo presso la Corte d’Appello di Bari ai soli fini civilistici. In primo e in secondo grado, i 12 imputati, dieci dirigenti e due consulenti dello stabilimento foggiano, sono stati assolti dall’accusa di “disastro colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni e omissioni di controllo”. La procura sosteneva che gli operai “non furono informati al tempo dei rischi causati dall’esposizione all’arsenico” “furono impiegati operai specializzati nelle opere di bonifica dell’area” e “non si assicurò che i dipendenti usassero maschere protettive con filtri cambiati quotidianamente e tute impermeabili a tenuta stagna”. Men che meno, sempre secondo l’accusa, venne monitorata la concentrazione dell’arsenico nei terreni e non “fu ridotto al minimo indispensabile il numero di persone alle quali consentire l’accesso nello stabilimento”.

Per la morte degli operai e per l’incidente non c’è alcun colpevole. Scarni sono stati anche i risarcimenti. Nel corso del dibattimento Eni ha proposto 30mila euro ai famigliari delle vittime e 15mila alle altre parti civili per chiudere il contenzioso e ritirarsi dal processo. Chi non ha accettato ed è andato avanti, non ha ottenuto nulla. Nonostante molti operai abbiano visto riconoscersi dall’Inail, per via giudiziaria, la malattia professionale.

Oggi lo stabilimento di Manfredonia non esiste più. Restano però i danni provocati da quell’impianto. Dal 1989 il territorio è catalogato come “area ad alto rischio di crisi ambientale” e negli anni successivi il Comune è stato inserito tra i “siti di bonifica di interesse nazionale” perché contaminato da benzene, toluene, xilene, arsenico, caprolattame, mercurio, piombo e azoto ammoniacale. Nel 2015, il Comune ha sottoscritto una collaborazione con l’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Asl di Foggia per una “Indagine conoscitiva sullo stato di salute della popolazione e dell’ambiente nella città di Manfredonia”, così da capire se e quanto l’esposizione ai veleni sprigionati dopo l’incidente del 26 settembre 1976 e più in generale dalla produzione dello stabilimento nei suoi anni di attività abbia influenzato nel tempo la salute degli abitanti. Lo scorso maggio sono stati presentati i primi risultati, così sintetizzati dall’équipe di studiosi:

1- Per quanto riguarda la mortalità generale, dal 1970, la popolazione di Manfredonia ha progressivamente perso il vantaggio che aveva rispetto alla regione e alla provincia.

2- Questo è vero in particolare per le malattie cardiovascolari mentre non vi sono differenze dalla media regionale o provinciale per l’insieme dei tumori maligni.

3- Dagli anni Duemila, la mortalità per infarto del miocardio è in eccesso sulla media regionale e provinciale sia per gli uomini e sia per le donne, nelle età più giovani. Questo andamento è coerente con quanto osservato in popolazioni che hanno subito eventi traumatici e gravi conflitti sociali.

4- La mortalità per tumore polmonare, di speciale interesse considerata l’esposizione ad arsenico della popolazione, mostra un eccesso sulla media regionale e, in particolare, provinciale, a partire dagli anni Duemila. Le coorti di nati che avevano tra i 15 e i 49 anni al momento dell’incidente del 1976 mostrano una frequenza maggiore dell’atteso che si può riassumere con 14 casi in eccesso sulla media regionale.

“I primi risultati dello studio mostrano, con qualche incertezza statistica, luci ed ombre sullo stato di salute della popolazione. I dubbi sugli eventuali effetti nocivi dell’inquinamento ambientale subìto escono rafforzati. Bisogna chiarire i nessi con quanto è successo. Le richieste e il controllo delle azioni di bonifica e riqualificazione nell’area di Manfredonia e il presidio di monitoraggio epidemiologico sono prioritari”, scrive il team che ha lavorato all’indagine. Il progetto non è concluso e si concentrerà ora sullo studio sui lavoratori presenti nello stabilimento nei giorni successivi all’incidente del 1976.

Tra loro c’era Nicola. È morto nel 1997 dopo aver lottato contro il cancro al polmone destro e i suoi ex datori di lavoro. Come lui almeno altri 15 operai tra i circa 500 impiegati negli anni all’interno dello stabilimento. Nel libro “Di fabbrica si muore”, scritto da Alessandro Langiu e dal dottor Maurizio Portaluri di Medicina Democratica, l’uomo che ha assistito Lovecchio nella sua lotta, quella di Nicola è “una storia come tante”. Figlia di quella scelta industriale che Bruno Zevi definì su L’Espresso “un atto masochistico” e “una ghigliottina per il Gargano”. Il numero andò in edicola nel dicembre 1967. Tutti gli altri se ne sono accorti molto dopo, a causa di uno scoppio in una domenica mattina e alle polveri che silenziosamente hanno otturato i polmoni degli operai. Secondo quanto raccontano i processi, senza che nessuno potesse farci nulla.

Anzi, sì: gli operai avrebbero dovuto mangiare meno gamberi, scampi e aragoste. Una delle tesi del collegio difensivo, accolta dai giudici, imputava infatti i livelli di arsenico presenti nell’urina dei lavoratori, più elevati anche di 300 volte rispetto alla norma, non all’esposizione nei giorni che seguirono all’incidente ma al frequente consumo di crostacei, che contengono quel veleno in modeste quantità. Resta valida la domanda di uno degli avvocati di parte civile: “E quanto guadagnavano per permettersi una dieta così ricca di scampi e aragoste?”.

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