Dunque ci risiamo: il Presidente dell’Associazione Nazionale Anticorruzione (Anac) , Raffaele Cantone, punta il dito contro i concorsi universitari. La novità sta nel fatto che Cantone attacca su due fronti: da una parte critica il mondo accademico (quello dei cosiddetti baroni); ma dall’altra parte attacca la (pessima) riforma Gelmini.
Non ho gli strumenti statistici per entrare seriamente nel merito della questione: quanti concorsi per la docenza sono contestati? Il 50%? Il 10%? In quanti casi la contestazione, prende la forma di un ricorso e in quanti casi il Tar da ragione al ricorrente? Ho l’impressione che alcune aree siano più critiche di altre: le discipline umanistiche e la giurisprudenza (citate peraltro nell’intervento di Cantone) sembrano quasi sempre implicate. Ci sono dei punti cruciali, però, che posso sostenere anche senza dati statistici, e che penso possano aiutare una corretta valutazione da parte del pubblico.
Il primo punto è il seguente: in Italia, più che all’estero, i posti disponibili sono pochi e l’università è in forte contrazione. Questo fa sì che i candidati ai concorsi siano sempre molto numerosi rispetto ai posti disponibili. Non è raro che ci siano dieci o più candidati per una posizione di docente. Tutti i candidati per essere tali, devono essere in possesso dell’abilitazione nazionale, e devono quindi essere, in qualche misura, bravi e validi (nelle materie scientifiche la valutazione ha una sua limitata oggettività basata sui criteri bibliometrici; nelle aree umanistiche è probabilmente più discrezionale).
Partendo da queste premesse è evidente che un concorso inevitabilmente finisce con una maggioranza di candidati insoddisfatti e frustrati, che si sentono traditi, anche quando oggettivamente non è ovvio che siano migliori del vincitore (e probabilmente neppure peggiori: tra dieci più o meno ugualmente bravi uno vince e nove perdono). Molti tra questi possono fare ricorso e Cantone, come dice lui stesso è “subissato di segnalazioni”. Segnalazioni, si badi bene: perché non è frequente che i Tar diano ragione ai ricorrenti.
Un secondo punto da considerare è questo: è ingenuo pensare che sia possibile costruire una graduatoria monodimensionale certa e univoca tra molti candidati tutti in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale. Sarebbe facile, secondo voi fare una classifica monodimensionale tra gli alunni di una classe di scuola elementare? Ce ne sarà uno più bravo in italiano e uno più bravo in aritmetica, uno più vivace e originale e uno più studioso. Come si stabilisce chi è il primo della classe e chi è l’ultimo? In un concorso tra aspiranti professori ordinari, il problema sarà ancora più difficile: uno avrà pubblicato più lavori, un altro ne avrà pubblicati di più originali. Un altro ancora avrà più citazione e uno avrà ottenuto maggiori finanziamenti. Al concorso una graduatoria si deve fare, e il primo deve vincere, ma è ingenuo pensare che la graduatoria della commissione possa essere assoluta e che l’unica alternativa sia quella tra onestà e disonestà della commissione. Questa, è naturalmente la ragione per la quale nei Tar le ragioni dei ricorrenti abbiano di rado la meglio: sono più o meno equivalenti alle ragioni della commissione, e rappresentano semplicemente dei punti di vista diversi.
L’ultimo punto che intendo sollevare, sottolineato anche da Cantone, è che la riforma Gelmini ha istituzionalizzato una cultura del sospetto in merito all’accademia: un professore è di certo un barone e il suo successo accademico è la prova della sua bassezza morale, perché all’università solo la bassezza morale consente il successo. Ovviamente, questo contrasta con il fatto che le sentenze dei tribunali molto raramente confermano la fondatezza dei ricorsi. C’è però un interesse marcato dei governi di Berlusconi e post-Berlusconiani a denigrare i servizi dello stato: da una parte per facilitarne la dismissione e la conseguente privatizzazione, che evidentemente a molti amici affaristi fa comodo. Dall’altra parte perché i servizi costano e per questo stesso sono invisi al cittadino, che per lunga tradizione culturale del paese non considera le tasse come un contributo necessario per godere dei servizi e quando può le evade. La cultura del sospetto è così diffusa che per molti è fonte di sorpresa, o di ulteriore sospetto, il fatto che la ricerca italiana ottenga piazzamenti lusinghieri nelle classifiche internazionali. A questi compatrioti vorrei offrire una rassicurazione: continuando con la politica attuale, il peggioramento è garantito.