Carmelo Gariffo era il "corriere" dei pacchi e dei messaggi del boss latitante. Scontata la pena, è stato raggiunto da un nuovo ordine di custodia insieme a 11 persone. Nelle intercettazioni, due proprietari terrieri chiedono di assassinare un partente per ragioni di eredità: "Esci tremila euro ed è chiusa qua". Ma emergono anche le difficoltà economiche della cosca orfana di Binnu. La collaborazione degli imprenditori attraverso la rete Addiopizzo
Dieci anni fa girava per le strade di Corleone con l’automobile ingombra di sacchetti. Dentro c’erano vestiti, cibo, fogli di carta, pizzini: la corrispondenza e i generi di prima necessità di cui aveva bisogno Bernardo Provenzano. Ed è seguendo suo nipote Carmelo Gariffo – nel codice utilizzato nei pizzini indicato solo con un numero: 123 – che nel 2006 gli inquirenti riuscirono a trovare il ragioniere di Cosa nostra, latitante da 43 anni e poi arrestato in un casolare di montagna dei Cavalli, nella sua Corleone. Dieci anni dopo Gariffo ha finito di scontare la sua pena per aver favorito la latitanza dell’importante zio, ma in carcere ci ritorna con l’accusa di aver tentato di riorganizzare il clan mafioso nella città in provincia di Palermo.
Il nome del nipote di Provenzano è infatti in cima alla lista delle 12 persone arrestate dall’ultima operazione antimafia della procura di Palermo. Il gip Fabrizio Anfuso ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare richiesta dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis, Caterina Malagoli, Gaspare Spedale. Si tratta della quarta tranche dell’inchiesta Grande Passo, che ormai da anni vede i carabinieri monitorare ogni movimento di Cosa nostra dalle parti di Corleone, Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani. E adesso agli arresti sono finiti in 12: oltre al nipote di Provenzano, Bernardo Saporito, Francesco Scianni, Leoluca Lo Bue (che è figlio di Rosario, anziano boss corleonese gia’ coinvolto nelle precedenti indagini), Pietro Vaccaro, Vincenzo Coscino e Vito Biagio Filippello (entrambi operai della Forestale). Già detenuti in carcere sono invece Antonino Di Marco, Vincenzo Pellitteri e Pietro Masaracchia, i due Francesco Geraci (nipote e figlio di un anziano boss). Gli inquirenti hanno anche imposto la misura della libertà vigilata per due proprietari terrieri che avevano chiesto al clan di assassinare un parente per una questione d’eredità. Il prezzo di un omicidio dalle parti di Corleone nell’anno 2016? Tremila euro. “Ci vuole qualcuno che si assume le responsabilità e allora: tu pagando dici, vuoi fatto questo discorsi, esci tremila euro e si è chiusa qua…”, è infatti il consiglio che Masaracchia dà ad uno dei committenti, mentre le cimici dei carabinieri registrano tutto.
È su Gariffo però che i militari concentrano le loro attenzioni. Arrestato nel 2006, il nipote di Provenzano era libero da tre anni: gli inquirenti lo individuano mentre parla con Di Marco, dipendente comunale diventato nel frattempo reggente del clan e arrestato nei mesi scorsi. “Basta uno, non c’è bisogno di cento, però non vuol dire che le cose non le dobbiamo fare e dobbiamo cercare di vedere come risolvere la situazione”, dice Gariffo, intercettato, riferendosi alle estorsioni. Un taglieggiamento a tappeto che si regge da decenni su un sistema omertoso, che però questa volta si è rotto: è grazie alle denunce di alcuni degli imprenditori vessati da Cosa nostra, infatti, che gli inquirenti sono riusciti ad incastrare il nipote di Provenzano. Sono otto i piccoli artigiani di Chiusa Sclafani, Palazzo Adriano e Corleone, che per la prima volta hanno deciso di collaborare con la magistratura: da queste parti un vero e proprio evento. “Un grande aiuto, nel corso delle indagini, è giunto dalla rete sociale costituita da Addiopizzo che assieme ai carabinieri si è spesa per la crescita di questa rete che ha consentito di raccogliere la collaborazione di diversi imprenditori che hanno ammesso di avere pagato il pizzo”, ha detto in conferenza stampa Giuseppe De Riggi, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. “L’operazione Grande passo 4 – ha spiegato sempre il militare – fa emergere alcuni elementi caratterizzanti che sottolineano il localismo mafioso e il tentativo di ricambio generazionale ma sempre puntando su cognomi blasonati. Il territorio è la forza di questa organizzazione che si fa sistema e che pretende di controllare ogni cosa, dal più piccolo degli appalti alle contese ereditarie. Un localismo da difendere come un fortino assediato e che mostra qualche elemento disgregante”.
E infatti secondo il dossier agli atti del consiglio dei Ministri, che poche settimane fa ha ordinato lo scioglimento del Comune, a Corleone Cosa nostra era riuscita a mettere le mani su alcuni settori della vita amministrativa locale. Come per esempio la società che doveva riscuotere le tasse, ma che evitava accuratamente di farlo quando a pagare dovevano essere i parenti e le famiglie dei capimafia locali.
L’ultima puntata dell’inchiesta Grande Passo ha anche documentato l’emergenza economica in cui versa il clan di Corleone: Gariffo e gli altri, per esempio, avevano bisogno urgente di soldi. E infatti, parlando di un’estorsione ai danni di un imprenditore diceva: “Ci dobbiamo provare. Ci dobbiamo provare per tante ragioni. Una perché sono azzerato completamente. E poi penso che ci sia bisogno, non sono il solo ad avere il bisogno ma ce ne sono assai, iniziando da mio zio e mio zio, certe cose, non se le merita”. E lo zio ovviamente è Binnu Provenzano, il ragioniere di Cosa nostra, deceduto nel luglio scorso.