Il regista de La Grande Bellezza contesta la scelta del film di Rosi, che rappresenterà l'Italia davanti all'Academy. Osannato da tutti gli addetti ai lavori, in Italia ha guadagnato poco meno di 800mila euro e all’estero 75mila. Dimostrazione della crescente distanza tra critica e pubblico e dell’annoso problema del documentario che viene giudicato alla pari di un film
“Scelta masochistica”. Il re Paolo Sorrentino, l’oscarizzato guaglione de La Grande Bellezza dopo anni di equilibrismo alla Fabio Fazio, tra salotti tv e anticamere della presidenza del Consiglio a dimostrare cosa significhi essere autori e fare cassa oggi, ha sentenziato. E’ la prima volta che si sbilancia, che prende una posizione diciamo estetico-politica, dai tempi in cui Antonio Pisapia (Andrea Renzi) inseguiva lo schema calcistico de “L’uomo in più” in attacco alla Glerean. La scelta del film Fuocoammare di Gianfranco Rosi, candidato a rappresentare l’Italia nella bagarre di titoli in cui si deciderà la cinquina per l’Oscar 2017 come miglior film straniero, secondo l’autore de Il Divo non è la scelta più adeguata. Anzi, è quella che proprio fa più male al cinema italiano. E Sorrentino, che è poi uno dei membri della commissione che ha preso la sofferta decisione, parla proprio di masochismo che, per definizione, è la “ricerca del piacere attraverso il dolore”. Insomma, la fantozziana boiata pazzesca inflitta ai membri dell’Academy che, citando Salvatores, “hanno bisogno di mettere etichette rassicuranti e tranquillizzanti a ciò che vedono”.
Se la voce di Sorrentino è riuscita a creare un’increspatura vera di dibattito attorno all’agonizzante arte del cinema italiano (a memoria nell’ultimo decennio: Muccino che distrugge Pasolini su Facebook; Zalone è di destra o di sinistra), il ragionamento sottolinea con chiarezza come nel nostro paese si sia allargato lo iato tra critica e pubblico, tra contenuto “alto” e “politico” di un’opera e la sua mancata percezione di massa. Osannato da moltissimi addetti ai lavori, Fuocoammare, Orso d’Oro a Berlino 2016, ha guadagnato in Italia poco meno di 800mila euro e, distribuito con fatica all’estero, tra Turchia e Brasile ha aggiunto in cassa a malapena altri 75mila euro. Insomma, goccioline nel mare. Anche se rimane tuttora il più grande sforzo produttivo e comunicativo che il documentario italiano è riuscito a fare negli ultimi anni. Perché Rosi quando inseguiva i suoi progetti e sogni più estremi (noi siamo in perenne visibilio per Below sea level, Il sicario e Boatman, molto meno per Sacro GRA e Fuocoammare) non racimolava nemmeno le bricioline di cui sopra, raccogliendo il plauso di una pulviscolare philia da festival.
Eppure Fuocoammare è dannatamente contemporaneo, con la macchina da presa che prende casa a Lampedusa e zigzaga attorno agli abitanti dell’isola, occhieggiando la tragica quotidianità della migrazione verso l’Europa. Solo che i “barconi” che affondano, damnatio memoriae degli italiani e non solo, spingono le masse a girarsi dall’altra parte, a non guardare i tg con i morti nel Mediterraneo, ma anche a stare lontani dalle sale cinematografiche per visionare “l’opera” che ne ripropone il tema. Una giornalista francese ieri scriveva su Twitter: “Vu cette semaine “#Fuocoammare, par-delà Lampedusa”, une belle photo poignante de 2h (mais pour quel public … ?)”. Appunto: per quale pubblico? In questo la battuta di Sorrentino che richiama Sacher-Masoch è calzante. Perché infliggere dolore ai membri dell’Academy che dovranno visionare e sentenziare su Fuocoammare? Sicuri che le scudisciate provocate dallo sguardo di Rosi che si infila nella stiva di una nave inquadrando cadaveri di migranti accatastati (scelta morale discutibilissima, ma tant’è) portino al definitivo “piacere” dei giurati?
Altro giro, altro regalo, e conclusione. Ma siamo sicuri che si deve candidare un “documentario” per il miglior film in lingua straniera, quando c’è già l’apposita casellina dell’Oscar come miglior documentario, dove potrebbe finirci (con un percorso ben più tortuoso e forse formalmente impossibile) il film di Rosi? L’insanabile frattura tra reinvenzione del reale e sguardo documentario su di esso torna d’attualità. Fuocoammare che beffa Lo chiamavano Jeeg Robot e Indivisibili, rinfocola la vexata quaestio e scompiglia le carte. Se nei festival come Venezia, Cannes e Berlino, il documentario è entrato a pieno titolo tra i film di finzione per vincere i premi dei vari concorsi, agli Oscar la distinzione è ancora possibile.
Certo è che la tragedia dei migranti che sfida il supereroe coatto o come sembra le gemelline che cantano ai matrimoni, vincendo, sembra proprio lo script di uno di quei film di Sorrentino dove sacro e profano si incontrano sulla via del kitsch volontario che a seconda dei momenti significa sguardo impegnato ma anche il suo esatto contrario. Sempre che Fuocoammare non sia un documentario alla Frederick Wiseman o Claude Lanzmann ma un pout pourri di stralci del reale colti senza preparazione nel momento del loro accadere, messi insieme a vere e proprie sequenze ricostruite a favore di cinecamera come, chi ha visto il film ricorderà, la mangiata di spaghetti in famiglia o la disquisizione simbolica sulla cecità del bambino lampedusano. Ma questo Sorrentino non l’ha detto e lo diciamo noi.
Rettifica del produttore di Fuocoammare, Istituto Luce Cinecittà
La risposta dell’autore. La fonte autorevole da cui abbiamo tratto gli incassi italiani ed esteri, aggiornati all’estate 2016, di Fuocoammare è questa. L’aggiornamento di queste ultime settimane in vista della possibile e poi avvenuta candidatura del film a rappresentare l’Italia verso la cinquina degli Oscar, non può che farci piacere, ma non sposta di una virgola la sostanza dell’articolo scritto. Fuocoammare rimane sì il più grande sforzo e il più grande risultato ottenuto da un documentario in Italia negli ultimi anni, ma è una candidatura che amplia la divaricazione profonda in atto tra critica e pubblico nel nostro paese da tempo. Fuocoammare, 800mila euro d’incassi più altri 200, rimane comunque un’opera di “nicchia”, e a livello critico risponde a quella philia che negli anni sessanta, settanta, forse fino ai novanta creava un numero autosufficiente di pubblico, ma che oggi sta esaurendosi come una candelina al vento. L’immagine rilevante della creatività cinematografica italiana fuori dai nostri confini è diventata semmai qualcosa di esteticamente più ricercato e pop (Sorrentino, Garrone, e volendo a suo modo anche tecnica e poetica alla Jeeg Robot sposano questa linea d’esportazione) che può piacere o non piacere. L’articolo vuole quindi aprire una riflessione su questo tema: su come si sia passati da una proposta per gli Oscar sulla falsariga di questa trasformazione estetica (La Grande bellezza) ad un titolo più old style come Fuocoammare. Alla fine dell’articolo aggiungo alcune considerazioni sulle modalità di “messa in scena” di un “documentario” che non mi fanno amare Fuocoammare come mi hanno fatto amare titoli più puri di Rosi come Boatman, Below sea level, Il sicario; ma questo, appunto, è un altro discorso. Davide Turrini