Da qualche giorno il Ministero Competente ha emesso la sentenza sui Prin (Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale). Sono le proposte di ricerca che ricercatori e docenti delle università italiane sottopongono al rigoroso sistema di valutazione ministeriale. Le richieste sommavano a circa 2,1 miliardi di euro. Per contro, sono stati finanziati progetti per circa 91 milioni di euro. Il 4%. La probabilità di successo, se si fosse proceduto per estrazione a palle fredde, era inferiore a quella con cui si vince una puntata alla Roulette (quella francese, con 18 stalli rossi, 18 neri e uno zero) giocata su un cavallo, la puntata su due numeri adiacenti. E di poco superiore a quella di un numero pieno (uno su 37, ossia il 2,7%). Molti si chiedono se il costo (umano e non) per la preparazione della proposta valesse la candela.

Naturalmente le palle non erano fredde, ma ben riscaldate da una rigorosa valutazione del merito. Nessun dubbio che i più meritevoli siano stati finanziati, anche se non è facile spiegarsi il fallimento di studiosi con alto valore degli indici bibliometrici, quelli tanto cari al Ministero Competente, a fronte del successo di scienziati con indici modesti. Studiosi con indice di Hirsch maggiore di 30 (considerato spesso la soglia dell’eccellenza) sono stati bocciati, mentre parecchi vincitori non superano il valore di 20, se non 10. Meglio la pioggia, allora? Da qualche anno non ho più dubbi: meglio la pioggia.

Se la pioggia cade uniforme e lenta è fonte di gioia, indispensabile alimento di ogni forma di vita, mentre se cade a scrosci intensi e concentrati diventa un incubo, una bomba d’acqua dagli effetti catastrofici al suolo. Nel secolo scorso il principio che il 60% del finanziamento pubblico alla ricerca universitaria dovesse essere distribuito agli atenei, nessuno escluso, garantiva il rispetto di un’ipotesi fondamentale: l’università, qualunque università, è la sede fondamentale della ricerca, la caratteristica che la distingue dagli altri luoghi di alta formazione. Così l’università veniva finanziata per quello che deve essere e non soltanto in base al numero di clienti (studenti) che soddisfa.

I due capisaldi del finanziamento a pioggia furono sanciti dall’unica riforma organica dell’università italiana dall’unità nazionale a oggi, il Dpr 382 del 1980, figlia del ’68. Il primo era il riordino delle carriere in tre categorie presenti quasi ovunque nel mondo (ordinario, associato e ricercatore) fissando un organico di 15 mila unità per ognuno dei ruoli, perfettamente uniforme. Il secondo era il principio del finanziamento pubblico della ricerca, assegnato in quota parte all’Ateneo e in quota parte ai progetti di interesse nazionale. E metteva alcuni paletti, come l’Anagrafe Nazionale della Ricerca, talmente fastidiosi ai successivi cultori del merito che mai furono attivati. Come potrebbe uno studioso (si fa per dire) astuto e ben introdotto farsi finanziare tre volte lo stesso progetto se ci fosse un’anagrafe efficiente a cui gli enti regionali, statali ed europei, potessero attingere?

In caso di pioggia, quest’anno ogni universitario avrebbe avuto circa 2mila euro, con cui dotarsi del computer per rispondere alle continue grida telematiche della propria amministrazione, che si guarda bene dal fornirlo. Chi ha perso (ossia il 96% degli accademici italiani) potrà però dedicarsi in pieno alla ricerca teorica, una categoria in cui gli italiani sono da sempre eccellenti. Bastano carta e matita, guardandosi bene dal rimuginare sul trasferimento di Higuain che, al netto dell’ingaggio e delle provvigioni, vale quanto un anno di ricerca universitaria pubblica. A quando la pubblicazione di uno studio comparato su costi e benefici delle due operazioni?

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