“Mi sono occupato molto di guerre, e sempre la guerra è causata dalle menzogne. Le menzogne che noi leggiamo sulla stampa hanno come conseguenza la guerra. Quindi secondo me ogni giornalista è responsabile di almeno dieci morti”. È una frase forte quella scelta da Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, l’uomo che qualche anno fa era indicato da molti – tutti? – come il guru della libertà d’informazione mondiale. Una frase pronunciata durante il suo collegamento con la festa nazionale dei 5 Stelle, che ha raccolto molti applausi da parte del pubblico e che nello stesso tempo ha colpito l’attenzione di alcuni dei presenti.

Chi scrive, per esempio, non ha potuto fare a meno di pensare subito che quella frase, o meglio l’eco di quella frase, rimbombava tra i prati del Foro Italico di Palermo, capitale di quella Sicilia splendida e contraddittoria che con il giornalismo ha da sempre un rapporto tragico.

Sono otto storie, otto vite, otto cadaveri quelli dei giornalisti che in terra di Sicilia sono stati ammazzati solo perché facevano bene – troppo bene – il loro lavoro. Dice: ma Assange che ne sa dei giornalisti siciliani morti ammazzati da Cosa nostra? Lo ha detto, giustamente, il grillino Giancarlo Cancelleri, interpellato sull’argomento. È inevitabile, però, che una frase così netta, definitiva, affilata come una lama, appaia quantomeno inopportuna, o – per citare sempre Cancelleri – come un vero e proprio insulto. Soprattutto perché il presunto conto dei morti pro capite provocati dai giornalisti è arrivato alla fine di una due giorni in cui – purtroppo – i cronisti – anche quelli di questo giornale – sono stati spinti, offesi, in un caso anche presi a schiaffi.

Sembra un inedito, ma non lo è dato che sulle offese al mondo della stampa, in particolar modo quando provengono dalla politica, questo Paese potrebbe scriverci libri. E d’altra parte degli attacchi di Beppe Grillo alla cosiddetta stampa di regime, agli editori impuri, ai grandi gruppi editoriali premiati da ricchi finanziamenti pubblici sono ricchi gli archivi. Il problema, semmai, è un altro. Il problema è che adesso all’indice non sono più messi i generici editori o i giornali, seppur citati per singola testata. E neppure un singolo cronista, come accadeva con la rubrica “Il giornalista del giorno” – caso ben più grave – additato perché colpevole di aver scritto un determinato articolo. Stavolta da un palco a pochi metri dai tre stand che facevano da sala stampa sono stati messi all’indice i giornalisti, tutti i giornalisti, anche quelli che trovano e scrivono le notizie dalle quali poi nascono le interrogazioni parlamentari dei grillini. I freelance da 3 euro a pezzo, i reporter d’inchiesta precari, i cineoperatori da 100 video al mese per campare: tutti nello stesso calderone delle firme superpagate, quelli che se le notizie avessero le gambe e andassero in giro per le strade sarebbero felici di sparargli dalla finestra pur di non disturbare il potente di turno. Una sorta di razzismo professionale che può diventare pericoloso.

E pericoloso ci diventa perché quando si guida un partito ormai capace di contare su un consenso vastissimo è possibile anche che tra i propri sostenitori ci sia qualche invasato. Uno che produca la più stupida delle equazioni: “Sei un giornalista? Allora fai schifo”. È quello che è successo a Palermo, dove prima è spuntato qualche stupido isolato a lanciare le sue offese contro l’intera sala stampa, poi sono arrivati quelli delle spinte e degli schiaffi. Qualcuno dirà: può capitare, un singolo non rappresenta un intero movimento. E invece no: non deve capitare. E se dovesse continuare a succedere a nulla saranno valse le prese di distanza dei gruppi parlamentari pentastellati. Che come in tutte le democrazie hanno il diritto di lamentarsi degli articoli dei giornali, a rettificarli, persino a portarli in tribunale, quando ci sono gli estremi: ma passare al “corridoio attivisti” che protegge con gli schiaffi gli eletti del Movimento dalle domande dei giornalisti è decisamente un’altra cosa.

Tutto questo ovviamente non può rappresentare l’autoassoluzione di un’intera categoria, mai in grado di fare un minimo d’autocritica e troppo spesso brava solo a piangersi addosso (è quello che è avvenuto nel day after della festa grillina). È inutile ribadire qui gli ormai atavici problemi che ha il nostro Paese con la libertà d’informazione, le classifiche, quelle storie lì. Superfluo è anche parlare di ingerenze dei partiti con i grandi gruppi editoriali, dell’equo compenso e della dignità dei cronisti, sfruttati e malpagati – incredibilmente – anche anche prima degli insulti di Palermo. Al contrario è proprio con il Movimento 5 Stelle che la stampa italiana è spesso incappata in qualcosa che è forse più grave di un innocuo strafalcione, mostrando – a volte – il suo volto peggiore. Ed è forse motivato da questo il livore che i leader e gli attivisti grillini provano nei confronti dei giornali. Qualche esempio? Solo per rimanere alle ultime settimane, la presunta scorta portata al supermercato da Virginia Raggi o i trafiletti sul maltempo dell’Osservatore Romano spacciati a prime pagine unificate come una bocciatura del Vaticano per la giunta capitolina, con tanto di rettifiche successivamente semi nascoste. Come dire: gli otto cronisti ammazzati da Cosa nostra saranno anche eroi insultati dalle parole di Assange. Ma non è certo il caso che facciano da alibi per tutti gli altri.

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