Non è il Natale, la Pasqua o il Capodanno… Da 50 anni a questa parte, l’immancabile ricorrenza per ogni cinefilo si chiama Woody Allen e stavolta nei cinema italiani si festeggia il 29 settembre. Ormai dovrebbe essere un’abitudine, eppure la sorpresa di ritrovarlo ogni anno in grado di meravigliare come la prima volta, fosse anche per un semplicissimo dettaglio o per una piccola situazione indimenticabile, scaccia via quel velo di malinconia derivante dalla consapevolezza che nulla è eterno e che anche le migliori tradizioni sono destinate a finire prima o poi.
Ma senza lasciare troppo spazio alla nostalgia, è giusto guardare il presente e godere, finché possibile, di ogni singolo fotogramma che questo omino occhialuto del Bronx continua a regalarci.
La sua ultima acrobazia è un tuffo nel passato florido e splendente della Hollywood anni ’30, quella popolata da uno star system scintillante e non lontana dall’epoca portata in scena con Ave Cesare da altri due grandi maestri come i Coen.
Non ho utilizzato il termine acrobazia casualmente, perché in realtà Café Society segna una strana piroetta nella carriera di Allen ed è incredibile che questo avvenga all’età di 81 anni e con 45 film alle spalle. Se nel corso del tempo infatti, il regista statunitense è diventato un pezzo imprescindibile della storia del cinema grazie alla brillantezza delle sue sceneggiature, abitate da una gamma sterminata di personaggi memorabili e dialoghi da capogiro, questa volta sembra puntare la sua tacca di mira altrove.
L’evoluzione narrativa e le dinamiche sentimentali che legano i vari protagonisti sono sempre segnate dal destino beffardo e da quel caratteristico tocco ironico-nostalgico, ma non sono il centro nevralgico del film e si snodano in maniera abbastanza semplice, senza particolari guizzi di genialità e ricercatezza. Quello che invece lascia completamente sbalorditi è l’inusuale complessità tecnica del film e la sua particolare forma visiva.
Che Allen sia un genio anche nel saper girare esattamente una scena non sono certo io a doverlo dire, ma se solitamente la sua regia era calibratissima nell’economia del racconto, ai limiti dell’invisibilità, questa volta la macchina da presa diventa improvvisamente mobile; le tradizionali inquadrature corali a camera fissa, lasciano spazio a virtuosismi inaspettati, all’alternanza di campi e controcampi desueti e soprattutto la solita inappuntabile linea minimalista della fotografia si impreziosisce di un elemento baroccheggiante totalmente sorprendente.
Il primo incontro cinematografico tra Vittorio Storaro (direttore della fotografia di capolavori come Apocalypse now e Novecento) e Woody Allen crea subito un’alchimia unica, tanto da farlo sembrare uno di quegli incontri tra due vecchi amici di lunga data.
Le luci calde e pastose sembrano provenire da ogni dove, persino dalle pareti, disegnando fantasiose silhouette e giochi di ombre; la cura minuziosa di una messa in scena impeccabile e articolatissima riesce a far sembrare le inquadrature un susseguirsi di quadri composti da un pittore impressionista, la scelta della palette dei colori nella ricercatezza di accostamenti visivi elegantissimi ci trascina in un mondo che dà l’idea di possedere tonalità esclusive e inimitabili. E ancora, l’utilizzo di scenografie talmente articolate da sembrare disegnate, contribuisce a rendere quasi magica la ricostruzione di quel periodo.
Ogni più piccolo frammento di questo film trasuda amore per il cinema ed evidenzia una cura così certosina del dettaglio che da un autore tanto prolifico e rapido nelle tempistiche è davvero difficile aspettarsi.
Ad abitare e impreziosire questa pittoresca rappresentazione dalle atmosfere retrò, sono senza dubbio i personaggi di Kirsten Stewart e Jesse Eisenberg che, a dispetto di quello che si potrebbe pensare, insieme trovano un’efficacissima sintonia di coppia.
Lei, dopo il meraviglioso Sils Maria, conferma di essere un’attrice finalmente matura, mentre lui si dimostra sempre più abile nel vestire i panni di un ipotetico alter ego alleniano.
A colmare i piccoli vuoti lasciati dai due protagonisti, ci pensa poi un poliedrico e trasformista Steve Carrell, ormai attore totale a 360°, in ogni ruolo che lo vede coinvolto.
I film di Allen hanno una sorta di piccola magia che li avvolge, un respiro inconfondibile che li anima e Café Society non fa eccezione. È un film che ci porta con grazia sopraffina nello sfarzo e nella bellezza di un’altra epoca, tra i vizi e le virtù di New York e Los Angeles, trascinandoci però ad un finale di un’amarezza infinita con quella meravigliosa dissolvenza incrociata, malinconica e struggente, dal sapore tipicamente alleniano.
Ancora una volta grazie Woody.