Nella notte del 18 settembre del 2008 un commando camorrista guidato da Peppe Setola, il killer cecato di camorra, sterminò un gruppo di africani nei pressi di una sartoria, la Ob Ob Exotic Fashion di Castel Volturno sulla via Domiziana. I buchi dei proiettili dell’artiglieria pesante con cui erano stati ammazzati Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Samuel Kwako, El Hadji Ababa, Jeemes Alex, e Christopher Adams erano ancora cerchiati sui muri, sulla saracinesca e su una Clio parcheggiata lì fuori. La protesta della comunità africana, molto numerosa nell’area, si era riversata in strada il giorno dopo chiedendo sicurezza. Una truppa di giornalisti era accorsa sul posto, e io pure fui mandato dal mio giornale di allora, l’Unità, di corsa la sera stessa a provare a raccontare qualcosa di quello che stava succedendo.
Il 20 settembre 2008 è un giorno che ricorderò per aver appreso una lezione di giornalismo. Una di quelle lezioni che prendi quando fai cronaca e vai nei posti a vedere che succede. Me la dette Peppe D’Avanzo che quella mattina, assieme a Conchita Sannino, brava collega di Repubblica, si presentò davanti alla sartoria. In quelle ore (era già passato più di un giorno), nessuno aveva ancora idea non solo dei motivi della strage, ma anche di chi diavolo ne fossero realmente le vittime. Tanto che io provai a costruire il mio pezzo proprio su quello, andando in giro tra parenti, conoscenti, commissariato e associazioni. Ci misi una giornata per provare a raccontarli, scrissi sicuramente male qualche nome, ma raccontai chi fossero e cosa ci facessero lì.
Peppe quella mattina fu aggredito con rabbia da un ragazzo a cui chiedeva che era successo. Si chiamava Kwane e me lo ricordo anche io perché lo prese quasi dal bavero e gli iniziò a urlare: “Non è giusto, siamo brava gente. Anche la nostra vita dovrebbe avere un valore. Quando uccisero quella signora a Roma, subito trovarono il rumeno assassino. Accadrà anche per noi, per i nostri amici innocenti? No, che non accadrà. Perché noi siamo negri e la nostra vita non vale quella di un italiano, nemmeno quella di un italiano assassino. Siamo noi – non i bianchi di qui, non gli italiani che accettano di vivere con quella gente armata – siamo noi a chiedere: dov’è lo Stato in questo Paese? Perché non fa il suo mestiere?”.
Quella scena mi è venuta in mente questa mattina. Sono passati quasi giusti otto anni da allora. In un articolo, ieri, Filippo Facci attacca D’Avanzo – che come sappiamo non può difendersi perché morto cinque anni fa – proprio su quell’articolo. Usa parole che perdono di peso. Lo accusa: “Prima prefigurò una probabile matrice non criminale e possibilmente razzista dietro al fatto che gli ammazzati, «alla cieca», non fossero nigeriani bensì «sei ghanesi innocenti»: salvo scoprire che i ghanesi erano tre, e che altri erano liberiani più un togolese e soprattutto un camorrista”.
Ed è una gran bella panzana perché il “camorrista” era un gestore di una sala giochi che fu ucciso quella notte, ma certo non sotto la sartoria africana. Ed è vero che allora erano tutti “ghanesi” ma lui non c’era quando quel giorno andai alla polizia e manco loro sapevano chi fossero gli uccisi, da dove venissero. Scrive ancora il nostro, citando D’Avanzo: “E allora perché meravigliarsi se i Casalesi, una banda di assassini che controlla gli affari di droga e utilizza nelle sue imprese il lavoro nero, possono pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno?”. Facci ritiene che quell’interpretazione, che D’Avanzo aveva fatto andando sul posto, sia un errore. Invece la storia ci dice che è proprio così. Basta andarsi a prendere la sentenza di Cassazione che condanna il gruppo di fuoco all’ergastolo contestandogli anche l’aggravante dell’odio razziale.
Dicevo della lezione di giornalismo che mi impartì quel giorno Peppe. Scrisse il pezzo tenendo la barra dritta sull’odio di quel ragazzo, che avevo visto pure io ma che tenni da parte: fece cronaca. E questo mi insegnò: a non essere mai un cronista come Filippo Facci.