Il 23 settembre scorso i ministri che si occupano di commercio nei vari Paesi Ue si sono incontrati a Bratislava per discutere circa il futuro del Ttip (Partnership transatlantica sul commercio e l’investimento tra Usa ed Ue) dopo il terremoto della Brexit ed i diversi annunci che si sono susseguiti nel corso dell’estate, da parte di vari esponenti politici ed istituzionali europei, circa il possibile abbandono dei negoziati. Al termine dell’incontro, i ministri hanno confermato la volontà di proseguire con i negoziati, pur riconoscendo che è ormai improbabile la conclusione dei medesimi entro il termine dell’Amministrazione Obama. Il Ttip, dunque, sebbene indebolito dalla “volontà di fuga” del principale mediatore tra Usa e Ue, ovvero il Regno Unito, è vivo e risorge dalle sue ceneri.
Nell’ambito del più vivace dibattito che un trattato sul commercio e gli investimenti in corso di negoziazione abbia mai suscitato nella storia del mondo, i post pubblicati su questo blog nei mesi scorsi rappresentano un excursus su alcuni dei possibili rischi che alcune specifiche previsioni (o relative interpretazioni) contenute nei trattati internazionali sul commercio e gli investimenti diretti esteri possono presentare per la tutela del diritto alla salute dei cittadini. Al riguardo è necessario essere chiari: i trattati internazionali sul commercio sono strumenti finalizzati ad incentivare gli scambi tra gli Stati ed in quanto tali possono contribuire ad una crescita del benessere economico ed a rapporti pacifici tra le nazioni.
Tuttavia è necessario che i relativi testi ed i meccanismi che garantiscono la loro applicazione non finiscano per porre l’interesse economico degli attori privati al di sopra del dovere degli Stati di rispettare, tutelare e proteggere i diritti umani sancito dalla Dichiarazione sui Diritti Umani del 1948 e dalle decine di trattati sui diritti umani da allora sottoscritti dalla stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. È una questione di difficili (ma necessari) equilibri: da una parte, ad esempio, è necessario garantire che le aziende che sviluppano nuovi farmaci possano coprire i propri costi e trarre un profitto dalla propria attività, essendo così incentivate a sviluppare sempre di più la ricerca, ma dall’altra parte profitti molto elevati su farmaci salvavita non rappresentano un fatto eticamente accettabile se milioni di persone rischiano di essere escluse dall’accesso a tali farmaci. La rimozione di barriere al commercio può aumentare la concorrenza e offrire ai consumatori una maggior gamma di prodotti a prezzi più accessibili, ma non può e non deve finire per scoraggiare i governi dall’adottare misure maggiormente tutelanti per la salute della propria popolazione, rischio al quale si è accennato nei post sul tabacco e sui prodotti alimentari.
La tutela dell’uomo e dei suoi diritti umani, insomma, deve venire prima di qualsiasi altra considerazione: è questo il messaggio contenuto in alcune recenti risoluzioni delle Nazioni Unite (risoluzione del Consiglio per i Diritti Umani 30/L.14 del settembre 2015 e risoluzione dell’Assemblea Generale 70/149 del dicembre 2015), che richiamano il lavoro pluriennale dell’Esperto Indipendente delle Nazioni Unite per la Promozione di un Ordine Internazionale Democratico e Giusto, Alfred-Maurice de Zayas. Nei propri rapporti al Consiglio per i Diritti Umani ed all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, rispettivamente del luglio e dell’agosto 2015, de Zayas si concentra soprattutto sui meccanismi di risoluzione delle controversie (gli Isds – Investor-State Dispute Settlement) previsti dalla maggior parte dei trattati internazionali sul commercio e gli investimenti.
De Zayas evidenzia come questi organismi arbitrali, presso i quali possono fare ricorso soltanto le aziende, composti soltanto da tre persone e le cui decisioni sono generalmente inappellabili, molto spesso siano carenti dei requisiti di indipendenza e trasparenza che l’articolo 14 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 impone agli Stati di garantire nei procedimenti giudiziali. In diversi casi, sono stati documentati fenomeni di collusione tra i componenti del collegio arbitrale, aziende multinazionali ed alcuni grandi studi legali specializzati. Ciò è tanto più grave se si considera che le decisioni di questi organismi hanno spesso impatto sulla vita di milioni di cittadini e che i risarcimenti milionari (talvolta miliardari) che essi impongono agli Stati soccombenti sono fondi sottratti alla spesa pubblica e pertanto all’educazione, alla salute ed alle infrastrutture.
Lo stesso processo di negoziazione dei trattati sugli investimenti, generalmente condotto con modalità di elevata riservatezza da funzionari non eletti e che escludono dal dialogo i principali stakeholder (sindacati, associazioni dei consumatori, professionisti della salute e organizzazioni ambientaliste), viola l’articolo 25 della citata Convenzione, che prevede il diritto di ogni cittadino a partecipare, personalmente o attraverso suoi rappresentanti liberamente scelti, alla direzione degli affari pubblici.
Il fatto che un trattato come il Ttip sia oggetto di negoziazione in un contesto di particolare riservatezza (sebbene sempre più messa alla prova da parte della crescente attenzione dell’opinione pubblica nonché dai leak recentemente pubblicati da parte di Greenpeace) rappresenta motivo di allarme per la società civile, oggi maggiormente consapevole dell’impatto che questo genere di trattati può avere sulla vita quotidiana delle persone. Per questo motivo è importante che ciascuno di noi, attraverso sia i canali istituzionali che quelli messi a disposizione da parte di tante realtà associative, chieda a gran voce che i negoziati si svolgano nella più totale trasparenza e pongano al centro della struttura del trattato il principio della priorità della tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente su qualunque altro interesse.
PS. Grazie a Riccardo Facchini per la collaborazione nella stesura del testo.