Tromboni o ruffiani. Si oscilla spesso, noi giornalisti, tra questi due opposti. A volte si riesce nella difficile impresa di unire questi due difetti apparentemente così distanti.
Non saprei dire di me, ma posso indicare un collega che mi ha mostrato la giusta misura: Giuseppe D’Avanzo. Lo ricordo quando ci occupammo insieme, a Roma, della bomba alla sede del Manifesto. Era già vice-direttore di Repubblica, ma arrivò con lo zainetto in spalla. Con il taccuino in mano. Serio, ma pronto a un sorriso verso il cronista che al suo primo giorno di lavoro nel nuovo giornale si era subito trovato catapultato sul luogo di un’esplosione. Peppe in quel giorno oltre a insegnarmi – a provarci, almeno – come si raccolgono le notizie, come si verificano le fonti, mi mostrò come deve essere il giornalista: l’umiltà, il senso della misura. La consapevolezza che in fondo il cronista non è un attore degli eventi, ma un semplice testimone. Un medico che può al massimo fare una diagnosi, ma non ha cure.
Ed è già tantissimo: assistere alla vita degli altri, poterla raccontare. D’Avanzo sapeva in questo unire alla semplicità, l’orgoglio e la fierezza – mi sembra la parola più giusta – per la nostra professione. Quando anni dopo ci siamo ritrovati per scrivere insieme del rapimento dell’imam Abu Omar l’ho visto parlare con magistrati, poliziotti, ministri, senza mai cadere nella tentazione dell’ossequio. Senza prendere la scorciatoia della ruffianeria.
Insomma, umili, ma anche consapevoli della funzione che si svolge. Ecco cosa dovrebbe essere il giornalista che ha come principale ricchezza il proprio nome. Ci vuole una vita per dargli valore e basta un articolo per perderlo.
Ps. A proposito, ci sarebbe da dire delle critiche che Filippo Facci e Alessandro Sallusti hanno rivolto a D’Avanzo.