“Sono molto felice che la rete resti pubblica, orgoglioso che la flotta regionale venga completamente rinnovata”. Così il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Graziano Delrio, ha commentato il piano industriale delle Fsi. Tenere in mano pubblica la rete delle ferrovie o meno non è una decisione che spetta al board, ma semmai a chi rappresenta gli interessi dei cittadini italiani. Fino a prova contraria, il ministero dell’Economia è proprietario al 100% e quello delle Infrastrutture e Trasporti è il ministero vigilante che dà anche gli indirizzi alle Ferrovie dello Stato. Così non è più da tempo, ma alla presentazione del piano industriale, alla presenza del presidente del Consiglio, la cosa è sembrata palese.
Il maxi piano (piano-Paese) di investimenti, 94 mld nel decennio 2017-2026, richiama le vecchie pianificazioni dell’Unione Sovietica (quelli almeno erano quinquennali), piuttosto che uno snello piano industriale, da parte di un’azienda che si atteggia a impresa moderna, ma bisognosa di ingenti sussidi degli italiani e con le tare di sempre. Difficile spiegare ai pendolari perché il 70% delle attività e della crescita avverrà “fuori dal business tradizionale della rotaia”. Se si pensa che le FS hanno una quota di trasporto pendolari solo del 5%, quando l’80% va in auto e il 15% con altre modalità e che nelle merci è fanalino di coda continentale con il 7% (in Germania è del 18%) le priorità sembrerebbero altre quelle di stare nel perimetro tradizionale e migliorare i servizi offerti. Così verrebbe almeno giustificato il fiume di denaro pubblico trasferito ogni anno.
Nel piano c’è di tutto e di più, l’Alta Velocità Milano-Venezia e Napoli-Bari, mentre in tutta Europa l’AV è stata superata con normali linee veloci, meno energivore, meno costose, prendendo atto che le lunghissime distanze non esistono in particolare nell’Italia delle cento città. La manutenzione di rete e convogli è inefficiente, la flotta dei treni sembra quella di Arlecchino. I convogli sono di tutti i tipi, quindi più costosi da manutenere. Le infrastrutture poi hanno costi strabilianti, come ad esempio quelli dell’Alta Velocità: un km di rete costa il triplo che in Francia o Spagna. Ma nessuno si domanda come fare i futuri investimenti con costi industriali e non politici.
Non solo, i risultati dell’Alta velocità, al di là della propaganda, sono modesti. La Torino-Milano è praticamente vuota. La Milano-Napoli invece sta dando qualche positivo risultato. Peccato che oltre ai costi (altissimi), l’arrivo dell’Alta velocità sulla Milano-Napoli abbia comportato un peggioramento dei trasporti sulle linee parallele tradizionali di pendolari e Intercity. I passeggeri di Piacenza, Fidenza, Parma, Modena, Prato, Arezzo, Chiusi, Orvieto, Orte e Formia ne sanno qualcosa. A Matteo Renzi andrebbe ricordato che una delle cause dell’enorme e soffocante debito italiano è per l’appunto la spesa corrente e in conto capitale (investimenti) delle Ferrovie degli ultimi decenni e che per spendere tutti questi soldi, altro che chiedere più flessibilità a Bruxelles, servirebbe un accordo specifico che nessuno ci concederà mai. E’ difficile giustificare l’assunzione di 31 mila nuovi ferrovieri, quando la rete è sostanzialmente la stessa e le nuove tecnologie riducono sempre più l’apporto umano.
Le Ferrovie italiane, sotto un nuovo moderno abito, vogliono restare sempre le stesse e ampliare la propria posizione dominante e monopolista. Proprio come accade nel ricco (di contributi regionali) trasporto locale. Le gare, come in tutta Europa, non si fanno e si vede. La qualità degli standard di servizio è nettamente inferiore. Con la spesa facile e sussidi garantiti si rafforza la potente corporazione ferroviaria che ha deciso di rompere gli indugi con un piano industriale che prevede il matrimonio con le disastrate strade italiane (Anas). Manager, sindacati e principali fornitori e appaltatori stanno brindando.
Sotto l’allargamento del perimetro d’azione “siamo l’azienda della mobilità integrata e modale” c’è sempre quella voglia di non fare scelte prioritarie (industriali appunto), ma di dire di sì a tutti (nord e sud, pendolari e Alta velocità). Il piano degli investimenti sembra dettato da logiche locali anziché da uno snello e realistico piano nazionale. Del resto, è così che si accontentano gli appetiti clientelari della politica e si soddisfano le lobby dei costruttori e dei fornitori di beni e servizi. Basta non adottare un sistema universalmente utilizzato come l’analisi costi-benefici. Nessuna valutazione tecnico-economica ma soltanto convenienza politica tanto il trasporto ferroviario è sempre di sinistra ed ambientalista. E così il perimetro delle attività del gruppo si allarga sempre di più.
La “mission” si rinnova, non solo trasporto anche altro. Tante attività (ancor meno controllabili) all’estero, compreso il problematico e costoso (45 milioni) acquisto, chissà quanto costerà la gestione di quell’enorme ramo secco delle ferrovie elleniche, messe in gara dal loro governo. Gli austriaci avevano espresso interesse solo se a costo zero e a risanamento avvenuto, alla fine hanno detto no. Anziché occuparsi dei rami secchi greci sarebbe meglio occuparsi, seriamente, di quelli siciliani, sardi o calabresi che già sono in gestione alle FS. Nell’ampliamento della “mission” ce n’è un’altra che cresce impetuosamente: quella di acquisire (salvare) aziende decotte di trasporti. I fallimenti (le ferrovie pugliesi sud-est), che scottano con migliaia di addetti e che andrebbero lasciati gestire alla politica colpevole dello sfascio, vengono invece incorporati dalla grande azienda nazionale. Il ruolo del gruppo si allarga fino al punto di diventare un grande ammortizzatore sociale capace di sostituirsi all’Inps. Tanto welfare e pochi treni (in ritardo) regionali. Così si diventa il grande player italiano che dovrebbe competere nel mercato mondiale.