Forse è il caso di mettere dei paletti. Sì, è vero, i linguaggi sono in continua evoluzione, e quel che fino a poco fa sembrava impossibile, inconcepibile, oggi viene dato per scontato, come la cosa più naturale del mondo, ma a volte arriva il momento di fissare delle regole, anche minime, per non scivolare nell’incomprensibile. Peggio, per non cadere rovinosamente nel ridicolo. E se fino a qualche decennio fa era impensabile mettere per iscritto il linguaggio che si usava informalmente parlando, se non come scelta letteraria comunque vissuta come una sperimentazione, è ormai dato per assodato che scrivere senza seguire le rigide regole che in genere si associano alla parola fermata sulla pagina non è più un dovere.
Questo, dirà qualche purista, ha portato a un impoverimento della lingua, a una volgarizzazione della medesima ma di fronte a questo incedere non ha senso interrogarsi con intenti moralistici o etici: si deve accettare l’evoluzione e, al limite, considerarla una involuzione, amen e avanti si vada. Quindi è successo che la rete, dove il libero accesso alla scrittura condivisa ha fatto da traino a una nuova forma di giornalismo, ha reso accettabile non solo e non tanto il gergo colloquiale, ma addirittura le cosiddette parolacce, le parole accorciate, tipiche prima degli sms e poi dei messaggi su whatsapp. Che tutto ciò abbia comportato il sacrificio estremo anche dei congiuntivi non è passato senza lasciare cicatrici difficili da far sparire, ma questa è la vita, chi saremo mai noi per opporci alla contemporaneità.
Ecco, la contemporaneità. Se prima la rete, le mail, poi gli sms, poi i messaggi su whatsapp, poi i post, poi i tweet, insomma, se tutto quello che ruota intorno alla nuova principale forma di comunicazione, quella che passa dagli smartphone, è divenuto naturale, tanto da apparire come la prima forma di comunicazione nel nostro tempo, c’è un aspetto che però non deve e non può passare in cavalleria: l’uso smodato le emoticon. Diciamocelo, ne abbiamo abusato un po’ tutti, almeno qualche volta nella vita. Succede spesso così, nella vita. Scopriamo qualcosa, ci piace, la usiamo, la usiamo spasmodicamente, esageriamo, gli altri ce lo fanno notare, smettiamo. Invece con le emoticon non abbiamo smesso. Prima c’erano quelli canonici, piccolini, sempre gli stessi. Poi sono arrivati quelli più complessi, articolati. Chi non ha usato quello a forma di stronzo, per dire, o quello con la banana sbucciata? Certo, una volta fa ridere, due sorridere, il problema arriva alla terza volta che qualcuno ci manda l’emoticon dello stronzo. E per di più non da solo. Perché il problema è che molti, forse tutti, oggi comunicano quasi più con gli emoticon che con le parole. Ma mettere quello con l’occhiolino e la linguaccia in fondo a un frase, esattamente, cosa vuole comunicarci? Mettere quello con gli occhiali da sole? Significa che siamo fichi? Che siamo dei boss? No, perché il problema è la decifrazione del linguaggio, e anche l’abbondanza.
Cioè, se alla fine di una frase, spesso monca e sgrammaticata, mettiamo per forza delle emoticon potrebbe esserci un problema. Ero, ai tempi dei geroglifici ci si esprimeva con dei disegnini che, in fondo, non erano poi così diversi dalle emoticon, ma allora non c’erano le parole scritte. Ora ci sono, usarle potrebbe essere utile. Invece no, ci si lascia andare a una serie infinita di emoticon, che finiscono per confondere, disturbare, in qualche modo nauseare. Mettiamo una moratoria, prendiamo un numero, magari anche un numero alto, che so?, venti, e stabiliamo che oltre non è lecito andare.
Da oggi, chi supera le venti emoticon venga coperto di pece e piume e lasciato andare in mezzo alla folla pronta a schernirlo. Chi non ne usa proprio, invece, venga considerato un eletto, degno di finire in un conclave di reggenti, di quelli che rendeva felice Platone. Perché se continuiamo così, statene certi, finiremo per fare la fine di Socrate, che di scritto non ha lasciato proprio niente, neanche un’ emoticon.