Il branco resta in carcere. Lo ha stabilito il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria che ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Barbara Bennato su richiesta del procuratore Federico Cafiero De Raho e dall’aggiunto Gerardo Dominijanni. Regge, quindi, l’accusa nei confronti dei sette giovani di Melito Porto Salvo, tra cui anche il rampollo della cosca Iamonte, arrestati nelle settimane scorse per aver abusato per oltre due anni di una ragazzina di 13 anni.
I giudici del Riesame, infatti, hanno respinto i ricorsi presentati dagli avvocati di Giovanni Iamonte (figlio del boss Remingo), Pasquale Principato, Daniele Benedetto, Michele Nucera, Davide Schimizzi, Lorenzo Tripodi, Antonio Virduci. È stato confermata anche la misura dell’obbligo di presentazione per Domenico Maria Pitasi, accusato solo di favoreggiamento personale.
L’inchiesta “Ricatto” (partita grazie a una fonte confidenziale che ha informato i carabinieri su cosa stava succedendo) ha fatto luce sulle angherie subite da una ragazzina che pensava di amare un ragazzo più grande di lei, Davide Schimizzi, ma che si è rivelato il suo carnefice. L’indagato, infatti, avrebbe costretto la tredicenne ad avere rapporti sessuali con il resto del branco del quale faceva parte anche Giovanni Iamonte, secondogenito del boss di Melito Porto Salvo Remingo Iamonte, attualmente detenuto, e nipote del mammasantissima don Natale deceduto alcuni anni fa dopo un lungo periodo di latitanza finita nell’hinterland milanese.
Ritornando all’inchiesta, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2015, infatti, la ragazzina veniva presa a scuola e accompagnata in luoghi appartati dove subiva violenze perché ricattata dagli arrestati che minacciavano di divulgare alcune sue foto intime. Sembra che in molti sapessero. Anche “il padre della ragazza – ha specificato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci – si era lamentato con il padre di Iamonte senza però denunciare le angherie” subite dalla figlia. “Quei ragazzi hanno voluto che facessi cose contro la mia volontà”. Il racconto della tredicenne è agghiacciante. Ai magistrati, assistiti da una psicologa, ha raccontato degli abusi subiti da Giovanni Iamonte e dagli altri indagati tra cui il suo ex ragazzo Davide Schimizzi con il quale aveva litigato dopo essere stata sorpresa a messaggiare con un amico.
“Lui (Schimizzi) si è arrabbiato e ha detto che era finito tutto – fa mettere a verbale – Davide si ripresenta e mi dice che voleva stare con me perché io gli interessavo. Per farmi perdonare dovevo fare determinate cose con lui e altri suoi amici. Mi sono sentita usata. Pensavo solo che volevo se ne andassero in quel momento”.
Lei lo fece, ma secondo il gip Bennato, dal racconto della ragazza “emerge una sorta di rassegnazione, la dolente accettazione di dover lavare la sua colpa (aver messaggiato con un altro ragazzo), sprofondando in una irrimediabile condizione di inferiorità e solitudine, nella quale l’offerta del suo corpo inerme, a costo di una profonda lacerazione interiore e del disprezzo della propria persona, avrebbe potuto riabilitarla agli occhi di un ragazzo di cui non riusciva a scorgere la miserabile ferocia, aspettandosi da lui, lavata l’onta del tradimento, una rinnovata promessa amorosa”. Fra gli indagati, ci sono pure un poliziotto in servizio a Monza, Antonio Schimizzi (fratello di Davide) e l’infermiere Giacomo Iachino accusati di violenza sessuale su minore.
Ma ritornando a Giovanni Iamonte, i carabinieri hanno scoperto che il figlio del boss Remingo spesso si spostava da Melito a Reggio Calabria per avere rapporti sessuali che, nel territorio della sua cosca, probabilmente gli avrebbero creato qualche problema di immagine.