La “Notte dei ricercatori” è un’iniziativa promossa dalla Commissione europea fin dal 2005 che coinvolge ogni anno migliaia di ricercatori e istituzioni di ricerca in tutti i paesi europei. L’Italia ha aderito da subito all’iniziativa europea con una molteplicità di progetti che ne fanno tradizionalmente uno dei paesi europei con il maggior numero di eventi sparsi sul territorio.
Eh sì, l’Italia ha aderito sin da subito a questa bella iniziativa. Perché nulla è più importante in questo Paese che tentare di avere una bella facciata formale. Noi firmiamo tutto e aderiamo a tutto, specie le cose che ci fanno fare bella figura: accordi, convenzioni, iniziative, intese. Le ratifichiamo pure, ma poi che facciamo davvero per onorare tutti questi impegni? Spesso e volentieri niente, o quasi.
La notte dei ricercatori ha come obiettivo la creazione di occasioni di incontro tra ricercatori e cittadini per diffondere la cultura scientifica e la conoscenza delle professioni della ricerca in un contesto informale e stimolante e questo, naturalmente, è bellissimo, come spiegava su ilfattoquotidiano.it Massimiamo Bucchi. Ma alla resa dei conti, quale posizione occupa attualmente la ricerca nel panorama delle priorità nazionali? Come il nostro Paese alimenta e supporta il fuoco della curiosità scientifica acceso in un giovane magari proprio da questo evento? Con il nulla.
Un disinteresse politico verso la ricerca che ha radici lontane e che ha fatto sì che in Italia, più che in altri stati, anche il ruolo stesso del ricercatore venisse annichilito e perdesse progressivamente anche il suo valore sociale. Ora più che mai. Basti pensare agli ultimi 15-16 anni e scorrere la lista di colpi che ha subito il sistema scientifico italiano, dalla riforma universitaria che ha introdotto il cosiddetto “3+2” nei corsi di laurea, all’abolizione del ruolo di ricercatore dagli atenei con l’introduzione dell’abilitazione scientifica nazionale.
Per non parlare poi della miseria perenne che contraddistingue i finanziamenti alle Università e agli Enti pubblici di ricerca (Epr) e dell’”opacità” che segna da sempre (ne parlava già Sciascia, descrivendo il concorso da ordinario a cui partecipò Ettore Majorana negli anni ‘30) le selezioni pubbliche nazionali per il personale scientifico e accademico a tutti i livelli. Scarso interesse politico, baronati, clientele, risorse quasi azzerate… Ecco la notte in cui sono calati ogni giorno e da anni la ricerca italiana e i suoi lavoratori.
Una notte che appare senza fine e anzi sempre più buia: si sta, infatti, discutendo proprio in questi giorni il cosidetto decreto Madia “sblocca ricerca” per gli Epr, che “renzianamente parlando” dovrebbe far ripartire alla grande le attività scientifiche nazionali a 360 gradi dalla base: ovvero dalle assunzioni, da tempo immemore bloccate a fronte delle migliaia di ricercatori (e tecnici) precari pluriennali.
Al pari della riforma costituzionale anche questo decreto non brilla per chiarezza e sotto il ben augurante titolo che gli hanno affibbiato le cose poi non sono così luccicanti: l’articolo 8 disciplina, infatti, la materia relativa al fabbisogno del personale, fissando indicatori e limiti di riferimento (80%) totale per il personale assunto a qualunque titolo sul fondo trasferito dallo Stato annualmente; in più si specifica che le facoltà assunzionali vengano calcolate secondo unità di costo pari al costo medio complessivo annuale del personale, prendendo a riferimento quello del dirigente di ricerca al lordo degli oneri a carico dell’Ente.
Senza inoltrarsi nel tecnicismo della norma basta osservare che di tutti gli Epr esistenti solo due potrebbero essere nelle condizioni di assumere se passasse il decreto così com’è. Ma c’è di più: l’adozione della norma in argomento è dichiarata “imprescindibile nell’ambito di una efficace riforma degli enti, nell’ottica di conferire agi stessi una reale autonomia operativa, che possa tradursi in una effettiva maggiore competitività rispetto agli enti di ricerca del maggiori paesi europei”. Che significa: “Cari attuali vertici degli Epr, se volete maggiore autonomia gestionale dovete applicare questo articolo 8, altrimenti resterete al palo”. In sintesi, anche per la ricerca pubblica, questo governo applica il concetto che “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, all night long.