Stia tranquilla la sindaca di Roma Virginia Raggi che non ne vuole sentire parlare: le quote rosa imposte per legge non servono ad aumentare il peso delle donne, anche nelle società a controllo pubblico. Ne sanno qualcosa al Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del consiglio. Che ha predisposto il primo Report sullo stato di attuazione del Regolamento sulla parità di accesso ai vertici delle partecipate ora all’attenzione della commissione Affari Costituzionali del Senato. “Emerge chiaramente che la percentuale delle donne che ricoprono ruoli di vertice è sensibilmente aumentata nel triennio 2013-2016”, sono le conclusioni del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi che da pochi mesi ha assunto anche le deleghe delle Pari Opportunità. E che nelle conclusioni del documento saluta il balzo in avanti registrato dal 2014, primo anno dell’era renziana: addirittura otto punti percentuali dal 17,5 al 25,7 per cento di oggi. Eccellente, verrebbe da dire. Se non fosse che tra escamotage, condoni e trucchetti di tutto si tratta tranne che della storia di un successo. E il futuro non promette nulla di buono. Perchè, come sempre, fatta la legge trovato l’inganno. Anzi più d’uno.

QUOTE PERICOLOSE “Dai dati in possesso dal Dipartimento relativi alle nomine negli organi delle società non quotate nei mercati regolamentati controllate da pubbliche amministrazioni – si legge nel documento –  nell’ultimo biennio si osserva una non trascurabile tendenza incrementale di nomine di amministratori unici“. Che vuol dire? Significa che pur di scongiurare le quote rosa, e volendo però evitare la sanzione della decadenza dei vertici, le società inadempienti hanno imboccato la strada più semplice e cioè quella della modifica della governance: le norme sull’equilibrio di genere si applicano infatti solo agli organi collegiali. E non causalmente quando si opta per l’amministratore monocratico la scelta non cade mai (o quasi) su una donna: a febbraio 2016 ben 35 società su 100 risultavano affidate alla figura dell’amministratore unico, uomini nel 97 per cento dei casi.

CONDONATI E CONTENTI  E’ facile previsione che quello dell’amministratore unico sarà il modello più praticato per il futuro come già mostra la tendenza in atto. Un modello che ha fatto tesoro dell’esperienza se è vero che con questa modalità hanno chiuso il contenzioso con il Dipartimento per le pari Opportunità alcune società che erano state diffidate non una, ma ben due volte. E che, invece di adeguarsi alle regole, qualunque cosa se ne pensi politicamente, le hanno semplicemente aggirate. Ma non è tutto. In tre anni il Dipartimento ha inviato in tutto 197 diffide. Che hanno prodotto un bel misero bottino: appena sei sanzioni. E, a pensarci è andata pure di lusso. Perchè a partire da settembre 2014 e con “l’avallo del Segretario generale della presidenza del Consiglio“, specifica il documento presentato al Senato dal ministro Boschi, il Piano di vigilanza è cambiato: si è scelto di concentrarsi sulle società che avevano rinnovato più di recente gli organi e che presentassero il fatturato più elevato. Le altre, beneficiate da una sorta di condono, hanno potuto continuato a fare come se nulla fosse.

DISASTRO MERIDIONALE E’ forse grazie a tutto questo che, pressochè impunemente, in alcune regioni del Sud la presenza di donne negli organi delle partecipate è inferiore al 20 per cento, con percentuali ancora minori in Basilicata (13,3%) e in Calabria (14,9%). La media, pur bassa, raggiunta a livello nazionale del 25,7% dunque si regge principalmente grazie alle partecipate pubbliche del Nord.  Oltre che ad un ulteriore trucchetto: perchè nella maggior parte dei casi le donne vengono chiamate a ruoli comunque di secondo piano, come quelli di sindaci supplenti. Nei consigli di amministrazione e cioè nei posti che contano sono appena il 21 per cento del totale.

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