Il bilancio della prima sperimentazione italiana del modello nato negli Stati Uniti come alternativa ai dormitori: appartamenti indipendenti i cui inquilini pagano una piccola parte dell'affitto o si mettono a disposizione per fare lavori di manutenzione. "Permette di intervenire in situazioni per le quali il governo non fa nulla", spiega Marco Iazzolino della Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora
Vivere di nuovo sotto un tetto dopo anni, contribuire alle spese, rifarsi il caffè la mattina, fare amicizia con i vicini. Gesti banali, passi da gigante per chi fino a qualche tempo fa dormiva in stazione o in strada. Sono 510 le persone che negli ultimi due anni, grazie alla sperimentazione avviata nel 2014 dei network Housing First Italia, sono state accolte in 176 alloggi sparsi in 10 regioni. Si tratta di uomini e donne e di interi nuclei familiari (73 quelli che vivono nelle abitazioni messe a disposizione nell’ambito dei vari progetti). Ci sono anche bambini. Molte di queste persone pagano parte delle spese e, quando non possono farlo con il denaro, lo fanno ritinteggiando uno degli appartamenti del circuito o effettuando piccoli lavori di muratura. Il risultato? Tornare in una casa in molti casi significa a poco a poco riappropriarsi della propria vita. Ecco il bilancio a 24 mesi di distanza dall’avvio della sperimentazione italiana del progetto, oggi attivo in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Calabria e Sicilia.
Tra Comuni, enti ecclesiastici o religiosi, cooperative sociali e altre organizzazioni no profit sono 53 gli enti che partecipano al network coordinato da fio.PSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora). Tra i Comuni coinvolti anche Torino, Milano, Palermo e Bologna. “Questo progetto permette di intervenire in situazioni per le quali gli strumenti messi in atto dal governo non sono ancora arrivati”, spiega a ilfattoquotidiano.it Marco Iazzolino, esperto di Housing First per la Federazione. “Il governo ha scelto di fermarsi in un preciso punto, quello di una famiglia che vive un processo di impoverimento – sottolinea – ma al di sotto di quel livello c’è altro. Ci sono oltre 50mila persone che vivono nei dormitori, c’è chi vive in strada e che è fuori dai ogni provvedimento. E molti di loro nelle strutture di accoglienza trascorrono decenni. Ecco: i network operano in quest’area dimenticata dal mondo”.
DALL’ISPIRAZIONE ALLE SPERIMENTAZIONE – L’approccio Housing First si è sviluppato negli Usa dal 1992, quando Sam Tsemberis avviò a New York ‘Pathways to Housing’, un programma di contrasto alla homeless. Lo ricordano in una relazione elaborata sul bilancio della sperimentazione Massimo Santinello, professore di Psicologia di comunità dell’Università di Padova, e Paolo Molinari, ricercatore senior dell’Istituto di ricerche economiche e sociali del Friuli Venezia Giulia, entrambi membri del Comitato scientifico indipendente che si è costituito ad hoc per studiare i risultati dei progetti. Obiettivo del programma era “offrire un accesso in appartamenti indipendenti – scrivono – a persone senza dimora con problemi di salute mentale o di disagio sociale”. I risultati raggiunti negli Stati Uniti, in Canada e in diversi Paesi Europei, “hanno spinto la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora – spiegano gli esperti – ad avviare una sperimentazione anche in Italia, con la costituzione nel marzo 2014 della rete Network Housing First Italia”. A giugno scorso, inoltre è stata avviata la campagna #HomelessZero “rivolta al mondo politico, dell’associazionismo, del lavoro, della salute, alla società civile e all’opinione pubblica – scrivono i due membri del Comitato scientifico – per richiamare l’attenzione sulla questione”. Sul sistema di welfare e sulle politiche di contrasto della marginalità. Un primo passo è rappresentato dal bando per il finanziamento di progetti di housing sociale (per 50 milioni di euro) a favore di persone senza fissa dimora, da realizzare nel periodo 2016-2019, proprio in linea con la campagna #Homeless Zero, patrocinata dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
I DATI DELLA SPERIMENTAZIONE – Delle 510 persone accolte, 343 sono adulti e 167 sono bambini o ragazzi, che fanno parte di nuclei familiari. Nel corso dei primi mesi del 2016 sono entrate negli appartamenti 229 persone, 114 lo avevano già fatto nel 2015. Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini e donne con diverse problematiche: assenza o insufficienza di reddito, mancanza di lavoro o precarietà e impossibilità di poter vivere sotto un tetto sono una costante e coinvolgono almeno 8 accolti su 10. Malattie, esclusione o marginalità, scarse competenze scolastiche e professionali, difficoltà familiari riguardano invece fra le 4 e le 4 persone accolte su 10. Proprio per affrontare anche questi aspetti, il network Housing First supera l’accoglienza intesa come il passaggio degli homeless dal marciapiede al dormitorio e poi alle comunità e a varie forme di convivenza, per offrire loro la possibilità di ritrovarsi a vivere direttamente in un’appartamento e di iniziare un percorso di reintegrazione sociale. “La grande valenza di questo progetto – spiega Marco Iazzolino – è la scelta di un target, ossia persone che vivono ai margini della società, quelli a cui nessuno arriva, quelli che puzzano, che dormono sui cartoni e il coraggio di fare qualcosa di straordinario, ossia offrire loro una casa”. Tutto ciò ha generato un cambiamento: “La maggior parte delle persone ritorna attiva, vuole partecipare alle spese: chi vive sulla sua pelle l’esperienza di non avere una casa per 20 anni, quando torna a vivere sotto un tetto ne capisce l’importanza”.
COMPARTECIPAZIONE ALLE SPESE E INTEGRAZIONE – Sono 176 gli alloggi dei progetti Housing First Italia. Di questi il 60% è stato acquisito nel libero mercato immobiliare, il 21% è nelle disponibilità delle organizzazioni del network e il 19% è stato recuperato dal patrimonio immobiliare pubblico. “Uno degli aspetti più innovativi dell’approccio HF – si legge nella relazione – è la compartecipazione di almeno il 30% delle proprie entrate da parte delle persone accolte: il 47% degli adulti coinvolti nei programmi concorre con proprie entrate o dei propri familiari alle spese del progetto personale”. L’autonomia è l’obiettivo e infatti, tra le persone accolte nel 2015, 60 (il 34,5%) sono già uscite dal programma. Per quanto riguarda l’integrazione sociale, su 47 intervistati a distanza di sei mesi dall’ingresso in appartamento il 76,6% dichiara di aver incontrato persone per bere un caffè o pranzare/cenare insieme, il 63,8% ha fatto amicizia e il 38,3% ha partecipato a un evento organizzato dalla comunità. Per quanto concerne l’integrazione psicologica, “oltre l’80% dichiara di sentirsi a casa nel luogo in cui vive”. D’altro canto la media per la soddisfazione generale del servizio (sostegno abitativo ricevuto, preparazione, capacità di ascolto e di accoglienza dello staff) è di 4,59 su un massimo di 5. Insomma le persone inserite nei programmi in Italia sono soddisfatte del luogo in cui si trovano, ma la vera rivoluzione è quando iniziano a camminare con le proprie gambe.