Sulle prime verrebbe da ridere. La società che gestisce Il Sole 24 Ore, di proprietà dell’Associazione dei grandi imprenditori italiani (Confindustria) è sull’orlo del fallimento, nonostante da anni attinga al denaro pubblico per l’editoria, sotto varia forma. La bibbia italiana (teorica) del libero mercato, della competizione, il giornale che insegna a tutti come devono comportarsi le imprese, che dice ai professionisti cosa si deve fare per avere successo, affoga da più anni sotto un mare di debiti e di bilanci in rosso, come se non ci fosse connessione tra teoria e pratica, tra predica e predicatore, come, appunto, se non bastasse sapere ciò che è giusto per vivere bene. Tuttavia, se così fosse, sarebbe una normale storia italiana di «predicare bene e razzolare male». Purtroppo abbiamo ragione di credere che non sia questo il caso e la storia sia ancora ben più triste.
Il Sole 24 Ore viene da una lunga storia di monopolio. Fino a pochi anni fa, l’organo della Confindustria aveva l’esclusiva dell’informazione economica italiana. Suo era l’unico quotidiano economico, sua – soprattutto – era l’unica agenzia di informazione economica italiana (Radiocor), quella che passava le notizie a tutti gli altri giornali. Questo, ovviamente, era un problema per tutti i cittadini, in particolar modo per i risparmiatori e gli investitori non professionali, che attingevano a fonti non sempre attendibili, come quando negli anni di Tanzi la Parmalat veniva additata dal giornale confindustriale come «la Coca Cola italiana» e poi tutti sanno come finì. Poi nacque un po’ di concorrenza (1986 l’Ipsoa lancia «Italia Oggi», poi confluita nel gruppo che edita «Milano Finanza»), ma la minestra dell’informazione economica italiana non cambiò molto, guidata più da finalità di tutela delle rispettive parrocchie, anziché da obiettivi di completa e indipendente informazione. Il lupo perse il pelo, ma gli restò il vizio.
Insomma i lettori già l’hanno capito. Il dubbio è che ci sia una connessione tra i debiti e la qualità del giornale. Qualcosa (i conti in rosso) ci dice che la concezione degli editori italiani – per cui non si devono vendere copie del giornale, ma scrivere solo ciò che magnifichi le virtù dei proprietari – alla fine non renda. Fare i giornali senza cercare di offrire un vero servizio ai lettori, senza dare informazioni, notizie il più possibile accurate, approfondite, indipendenti, porta al fallimento. Strano che i confindustriali non l’abbiano capito: i giornali sono come ogni altra merce, se il prodotto è cattivo, fatto male, finito peggio, costoso e inutile per i clienti, è difficile che le aziende che li producono possano prosperare. Non vale dire che la carta stampata è in crisi, il giudizio dei consumatori è sovrano, se non ti comprano vuol dire che non trovano quello di cui avrebbero bisogno, non che il destino si è accanito contro di te.
Nel Vangelo, più seriamente, si dice che è difficile servire Dio e Mammona e l’Italia è il paese dove ci provano in tanti. Ci provano a vendere le merci, ignorando quelli che sono i bisogni della gente e dei consumatori. Poi tanto c’è sempre qualche governo amico che aiuta. Quindi tutti dietro a cercare i favori dei potenti, ma alla lunga non si fanno utili con il denaro degli amici influenti, ma grazie al consenso dei consumatori. Il problema dell’informazione in Italia è drammatico, ma è destinato a finire in tragedia se editori (e giornalisti) non comprenderanno che la gente ha sete di notizie, fresche, esaurienti e attendibili, non di veline o silenzi interessati.