Nonostante la distanza geografica e il tema diverso, la vittoria del no al referendum sull’accordo di pace tra il governo e le Farc, per 65mila voti, è stata ribattezzata da stampa e analisti come la Brexit colombiana. Tante infatti sono le analogie e i paralleli tra queste due consultazioni popolari, che hanno visto in entrambi i casi una campagna debole a sostegno del Sì, e una manipolazione abile e distorta sulle conseguenze del No. Così quello che sembrava inconcepibile e irragionevole è diventato realtà.
In Colombia, come nel Regno Unito, la popolazione ha votato contro, senza dare importanza all’opinione della comunità internazionale, con i vari appelli dei leader internazionali, dal presidente Usa Obama al Papa all’Onu per il Sì, da molti vista anzi come un’interferenza fuori luogo, e ora il timore di un isolamento internazionale si fa concreto. In entrambi i casi, rilevano gli analisti, i due premier si sono presi un rischio inutile convocando il referendum, usato da quello britannico David Cameron per risolvere i suoi problemi all’interno del partito e placare gli euroscettici, e da quello colombiano Juan Manuel Santos per dare maggiore legittimità all’accordo siglato a Cuba dopo un lungo negoziato.
Come rileva la rivista Semana, la campagna referendaria è stata condotta a colpi di messaggi emotivi e distorti. Nel caso della Brexit il fronte del No ha puntato su immigrazione e xenofobia, il recupero della propria autonomia e possibilità di puntare alle priorità nazionali. In Colombia il fronte del No, che ha avuto tra i suoi principali alfieri l’ex presidente Alvaro Uribe, oltre alla chiesa evangelica, ha seminato il panico dicendo che dietro gli accordi de la Avana c’era un attacco alla proprietà privata e alla dignità delle forze militari, che con il Sì avrebbe vinto il populismo di sinistra in salsa chavista del vicino Venezuela, ora precipitato in una profonda crisi economica, che sarebbero arrivati i terroristi delle Farc al potere, e che era possibile imporre la rinegoziazione degli accordi. Molti l’hanno anche veicolato come un No al presidente Santos e al suo governo, che non brilla per popolarità, e come un no alle Farc e non alla pace.
Il fronte del Sì, frammentato in 17 partiti e movimenti sociali, non è riuscito invece a fare una campagna unificata, puntando su valori come speranza, futuro e allegria, ma solo ha evocato il perdono. E a proposito di perdono, colpisce il dato che proprio nelle aree dove più forte è stato il segno lasciato dal conflitto con le Farc, la popolazione abbia votato compatta a sostegno del Sì. E’ il caso dei municipi assediati storicamente dai guerriglieri, come Cauca, Guaviare, Nariño, Caquetá, Antioquia, Vaupés, Putumayo, Meta e Chocó. A Boyayà, dove nel maggio 2002 negli scontri con i paramilitari le Farc uccisero 79 persone che si erano rifugiate in una chiesa, il 94% ha votato per il Sì. Nelle città e la capitale invece ha prevalso il No.
Anche nel Regno Unito forte è stata la differenza di voto tra aree rurali e città, oltre che tra giovani e vecchi. E come nel Regno Unito il risultato della Brexit ha portato alle dimissioni del premier e una rivoluzione negli equilibri del suo partito, anche nel caso del presidente colombiano la strada appare in salita, con conseguenze al momento difficili da prevedere. Molti temono il contraccolpo economico, con la svalutazione del peso colombiano e la fuga di investitori stranieri, e il rischio di una frammentazione della guerriglia, per la mancanza di una struttura gerarchica che ne tenga le redini. Sulla validità degli accordi de la Avana dal punto di vista legale ci sono varie interpretazioni, ma intanto Santos ha subito confermato il mantenimento del cessate il fuoco, e aperto al dialogo con i promotori del “No”, Uribe in primis, e anche il leader delle Farc Rodrigo Londono, alias “Timochenko”, si è dichiarato aperto al dialogo.