Un clan dilaniato da lotte interne. I nuovi reggenti che “processano” e minacciano con pestaggi e teste di capretto mozzate i vecchi boss. E questi ultimi che, sentendosi messi all’angolo, cercano di ottenere la protezione della primula rossa Matteo Messina Denaro. Succede tra Monreale e San Giuseppe Jato, comuni alla periferia sud di Palermo, dove un’indagine del comando provinciale dei carabinieri, coordinata dalla Dda del capoluogo siciliano, ha portato all’arresto di 16 persone, che devono rispondere a vario titolo di associazione di tipo mafioso, lesioni gravi, estorsione, illecita detenzione di armi, detenzione di sostanze stupefacenti, aggravati per essere stati commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione criminale. L’operazione denominata “Monte reale” costituisce il seguito del blitz ‘Quattro.zero’ scattato nel marzo 2015, e ha fotografato i contrasti che funestano i clan locali di Cosa nostra.
I dissidi interni al clan e la lotta per la successione al vertice – All’origine dei dissidi, la condotta inaccettabile del capocosca di Monreale. Gian Battista Ciulla, 35enne, aveva rubato i soldi dalle casse della “famiglia”, aveva disertato i summit e mostrato scarso interesse per le attività del clan, e aveva infine intrecciato una relazione amorosa con la moglie del carcerato. Questo, almeno, sostenevano alcuni componenti della stessa cosca, che avevano ottenuto di poter condannare Ciulla davanti al “tribunale” di Cosa nostra. Una condanna comminata “in contumacia”, però: perché nel frattempo Ciulla era fuggito a Tolmezzo, in provincia di Udine, nel febbraio 2015, temendo le punizioni che gli sarebbero state inflitte. La successione al vertice della cosca fu decretata, secondo le ricostruzioni degli inquirenti, in un summit organizzato il 25 di quello stesso mese e al quale parteciparono anche i boss della famiglia di San Giuseppe Jato: la scelta ricadde su Francesco Balsano. Nel corso della riunione, però, vennero comminate anche le sanzioni nei confronti dei fedelissimi di Ciulla. A Benedetto Isidoro Buongusto venne fatta trovata davanti casa una testa di capretto nella quale era stata conficcata una pallottola, e un biglietto con su scritto: “Da questo momento non uscire più di dentro perché non sei autorizzato a niente”. Dalle minacce si passò a i fatti: i nuovi vertici del clan incaricarono Sergio Di Liberto, 42enne uomo d’onore di San Giuseppe Jato e anche lui tra gli arrestati di queste ore, di picchiare Buongusto. Ordine eseguito, come dimostrano le parole dello stesso Di Liberto: “Si, tutto si è rotto! Le bacchettate nei piedi gli davo! I piedi gli ho rotto“, raccontava il mafioso, non sapendo di essere intercettato. Poi fu la volta di Onofrio Buzzetta e Nicola Rinicella, altri affiliati legati a Ciulla. Ad intimidire i due fu il nuovo capoclan in persona. “Ti è finita bene, perché dall’altra parte mi avevano detto di spaccarti le gambe“, disse Balsano a Rinicella. Buzzetta, invece, venne minacciato mentre era all’interno della sua auto: Balsano gli puntò una pistola in bocca, confessandogli: “Sono autorizzato ad ammazzarti pure ora”. Tutte intimidazioni registrate dai carabinieri.
La richiesta d’intervento di Messina Denaro – Ciulla e i suoi alleati, però, non avevano intenzione di stare a guardare. “Vedi che si vogliono organizzare”, rivelò uno dei fedeli di Balsano al suo alleato Salvatore Lupo. Riferimento che gli inquirenti collegano alla disponibilità di armi di Ciulla e i suoi e a una imminente guerra tra i clan. E in questo tentativo di reagire, s’inscrive il proposito di rivolgersi alla primula rossa di Castelvetrano. “Quelli di San Giuseppe Jato chi min… sono! Se gli dà ordine quello … quello di là, Messina Denaro, se gli dà ordine quello, questo deve fare quello che dice quello!”. Così, in una telefonata intercettata dagli inquirenti, ragionavano i membri dell’ala “perdente” della famiglia di Monreale, lamentandosi anche dell’intrusione dei boss del comune limitrofo. L’ipotesi, secondo le indagini, era quella di far giungere tramite terze persone una richiesta di intervento a Messina Denaro per dirimere la situazione. Alla fine, però, Buzzetta chiese un incontro con Rosario Lo Bue, capo mandamento di Corleone, e da lui ottenne la protezione necessaria ad aver salva la vita.
L’arresto del nuovo boss – Una svolta decisiva alla vicenda giunse il 6 marzo 2015, quando i carabinieri arrestarono Francesco Balsano per detenzione illegale di una pistola automatica calibro 7,65 e le relative munizioni. L’arma fu trovata durante una perquisizione in casa del mafioso, nel corso del blitz “Quattro.zero”. Fu così stroncata sul nascere l’ascesa del nuovo boss di Monreale, al vertice della famiglia da appena dieci giorni: da quando, cioè, il 25 febbraio del 2015 si era svolto il summit che aveva dato avvio agli scontri interni al clan.
Le parole degli inquirenti – “Le indagini mettono in luce le difficoltà di Cosa nostra nella ricerca di un equilibrio interno, indispensabile per portare avanti le proprie attività illecite”. Lo ha dichiarato, durante la conferenza stampa svoltasi per illustrare i dettagli dell’operazione, il neo comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, colonnello Antonio Di Stasio, che ha poi aggiunto: “A seguito degli arresti, per ricostruire assetti gerarchici, c’è una ricerca spasmodica di nuovi adepti e di elementi di spicco a cui assegnare la reggenza del mandamento, elementi che abbiano una capacità di leadership in grado di arginare conflitti interni. Cosa nostra cerca di trovare una compattezza granitica che le consenta di assolvere alla propria dinamica interna”.
I resoconti degli inquirenti hanno evidenziato anche le sofferenze economiche di Cosa nostra: alle prese con casse sempre più vuote, i clan colpiti dagli arresti di queste ore cercavano di rinsaldare le proprie finanze attraverso la tradizionale pratica delle estorsioni e quella della coltivazione di piantagioni di droga. “Si tratta di un’attività che prevede scarsi investimenti – spiega il tenente colonnello Pietro Sutera, comandante del gruppo di Monreale – ma che è particolarmente remunerativa quando la sostanza stupefacente si immette sul mercato. Le organizzazioni criminali guardano con particolare attenzione a questo tipo di business”. Ma le indagini hanno documentato anche “una pressione mafiosa sul territorio di Monreale e San Giuseppe Jato particolarmente intensa”. Pressione nei confronti di commercianti e imprenditori che, ha concluso Sutera “si manifestano in intimidazioni minacce e, in alcuni casi, nel ricorso a forme inaccettabili di violenza”.