La maglietta rosa, le lacrime che scendono sul viso pallido, più scarno rispetto a quello del 2007, quando baciava Raffaele Sollecito sulla staccionata di via della Pergola. E’ lei, è Amanda Knox, la ragazza di Seattle prima accusata poi assolta per l’omicidio di Meredith Kercher. Ricostruisce la notte del delitto e il processo, i suoi anni spensierati prima di arrivare a Perugia, la sua personalità corky – eccentrica. Guarda in camera mentre parla a Rod Blackhurst e Brian McGinn, registi del documentario che la riguarda prodotto da Netflix. Ripercorre la vicenda processuale che ha travolto la stampa internazionale e il suo pubblico, diviso a metà: innocentisti e colpevolisti.
I protagonisti di Amanda Knox – Sono quattro: lei, il suo ragazzo Raffaele Sollecito – si conoscevano da cinque giorni -, il pm Giuliano Mignini e il giornalista del Daily Mail Nick Pisa. Il quadro che emerge: un’opinione pubblica progressivamente costruita sulla pubblicazione di particolari morbosi e irrilevanti ai fini delle indagini. Altissima la concentrazione mediatica sulla promiscuità di Amanda, “Foxy Knoxy”, mantide religiosa, “predatrice di uomini”, assetata di sesso. Lo sguardo glaciale, le sue reazioni imprevedibili. Dettagli che il pubblico voleva e la stampa accontentava, come racconta anche Pisa, corrispondente del Daily Mail dell’epoca. Squalo e sciacallo, spregiudicato nella pubblicazione dei dettagli, inclusi i – trafugati – diari dal carcere di Amanda. Perché, dice galvanizzato, “per un giornalista il nome in prima pagina su uno scoop mondiale è come fare sesso”. E certo, è vero che alcune notizie non si sono rivelate vere, “ma siamo giornalisti e riportiamo quel che ci viene detto. Se avessi perso tempo a verificare avrei dato un vantaggio alla concorrenza“.
Per l’Huffington Post, però, lui è “il sintomo, non la malattia” di un sistema mediatico bulimico e ingordo, pruriginoso. Fatto di un formicaio di dettagli personali e intimi, che pesano anche sugli inquirenti. Il pm Giuliano Mignini: dice di guardare soltanto i fatti, ma le sue considerazioni vanno in senso opposto. Per lui Amanda ha un atteggiamento “anarcoide”, avverso all’autorità (forse a Seattle funziona così, commenta) e ha reazioni che inadeguate. Crolla sulla scena del delitto? Allora sta cercando di rimuovere dalla sua memoria le urla di Meredith. Il suo cadavere era stato coperto: un gesto che avrebbe certamente fatto una donna, non un uomo, asserisce Mignini senza spiegare perché. Ignora quando Rudy Guede, unico condannato per l’omicidio, spiega che Amanda quella notte non c’era. E il pm titolare dell’inchiesta si presenta: cattolico, padre di quattro figlie e fan di Sherlock Holmes, soddisfatto del suo lavoro e orgoglioso di avere fatto un buon lavoro sul caso, perché a poche ore dal delitto aveva già trovato i colpevoli. Che colpevoli, secondo la Cassazione che la seconda volta ha annullato con rinvio la sentenza d’appello, non sono. In ogni caso, per Mignini quello che conterà davvero è il giudizio del padre eterno, dove non c’è né appello, né Suprema corte. Impietoso anche il quadro che emerge sulla polizia: raccolta degli indizi e delle tracce biologiche inaccurata, approssimativa. E anche questi dettagli – cioè la sostanza – si ritrovano nel verdetto della Cassazione.
Le recensioni della stampa: speculazione mediatica e giudizi morali dell’accusa – Una ricostruzione che punta a difendere una cittadina americana o un quadro sconfortante della giustizia italiana che si agita in provincia a caccia della soluzione frettolosa di un caso per la gloria? Per alcune recensioni uscite sulla stampa nostrana quello di Netflix è un prodotto tutt’altro che neutrale, schierato: Amanda Knox è innocente. Un documentario, sottolinea il Corriere, fondato “sui più vieti stereotipi dell’italianità” e “su un presunto accanimento della giustizia italiana”. Dalle pagine del Fatto Quotidiano, Selvaggia Lucarelli ha scritto che quei novantadue minuti “beatificano” Amanda, peraltro molto abile davanti alla telecamera. “Perché Amanda è brava. Lo è sia che la giustizia sia stata giusta sia che la giustizia abbia preso un abbaglio. Piange, interpreta, ha le pause giuste, gli sguardi sofferti, la voce da doppiatrice. Riesce a creare empatia perfino quando dice delle stronzate incontrovertibili e provate”. Per Repubblica quello di Blackhurst e McGinn è un racconto del caso mediatico, non della vicenda processuale, e Wired lo vede come “un film sulla forza tuttora esercitata dagli stereotipi nella nostra percezione della realtà”, dove compare “un sessismo forte, serpeggiante, che nel 2016 è quanto mai lampante: al centro di ogni cosa, in effetti, si trova una ragazza dall’aspetto angelico che potenzialmente è una dominatrix, una pervertita, una psicopatica. La Foxy Knoxy costruita dai giornalisti e corroborata dalla versione dell’accusa, secondo cui “solo una donna coprirebbe il corpo nudo di un’altra donna dopo averla uccisa”. Infine, per La Stampa il film che “deve essere visto anche solo per guardare da vicino dentro la macchina della giustizia e di come le leggi, i processi, le indagini, gli articoli, le accuse e le assoluzioni siano comunque in mano a esseri umani senzienti e spesso fallibili”.
Esatto. Proprio questo il punto sul quale si riversano a valanga le recensioni anglosassoni, concentrate sul manganello morale dell’accusa e sulla vorticosa girandola della speculazione mediatica. Quello che prevale per Huffington Post è, sostanzialmente, il nulla: “Non ci sono fatti, testimoni e prove che dimostrino una sequenza temporale che ha portato alla morte di Meredith Kercher“. E Mignini, prosegue l’articolo, “è riuscito a montare un caso solo sulle sue congetture, su frammenti di Dna contaminato e sulla sua convinzione che fosse una sgualdrina americana assetata di sangue”. Stesso attacco al pm anche per Slate che critica aspramente l’approccio di Nick Pisa e ritiene che Amanda sia stata ritenuta colpevole “a causa degli istinti sessisti di un magistrato e dai volgari appetiti di una stampa insaziabile”. Il Washington Post punta il dito contro il circo mediatico e riconosce le colpe dei giornalisti che hanno fatto esplodere il caso. Il risultato: out of control. Cita il cronista del Daily Mail, che ammette come la polizia avesse fornito dettagli “crazy”, che si sono rivelati falsi. Ma intanto lui, e molti altri colleghi, ci facevano le prime pagine. Stessa linea per la Cbs, che parla di “horror kafkiano” e per Business Insider, sorpreso dall’impronta moralistica dell’accusa. Newsweek sottolinea l’assenza di prove e la moltitudine di dibattiti su quelli che erano pettegolezzi o informazioni irrilevanti mentre il Time evidenzia il cambio di versione della Knox davanti agli inquirenti. E’ andata così: durante un interrogatorio di 53 ore, le dicevano che quell’amnesia era meglio che la scacciasse, e intanto la colpivano da dietro, sulla testa, e le dicevano che era una bugiarda. La Corte di Strasburgo ha peraltro accolto il ricorso della Knox per aver subito un processo iniquo e di essere stata maltrattata dagli investigatori.
Colpevolisti o innocentisti che siate, la storia è quella di un travagliato percorso giudiziario durato otto anni, senza una prova una contro Knox e Sollecito. Dove i media hanno scritto, goduto, titolato, speculato. Supposizioni sì, tante, giudizi dell’accusa ampiamente basati su congetture e senza basi fattuali. Un cerchio che, dopo cinque gradi di giudizio, può chiudersi con le parole di Amanda: “C’è chi dice che sono innocente e chi dice che sono colpevole. Se sono colpevole, sono la persona di cui ti devi spaventare, perché sono la meno ovvia. Sono una psicopatica travestita da agnellino. Ma se sono innocente, allora sono te”.