Cronaca

Muore di cancro a pronto soccorso a Roma. Figlio a Lorenzin: “Negata dignità”. Poi la beffa: “Presto aree per il ‘fine vita’”

Nonostante le richieste e le proteste della famiglia l'uomo è morto come scrive il figlio al ministro della Salute "accanto anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti". A tutelare gli ultimi istanti di vita "un maglioncino con lo scotch tenuto sospeso tra il muro e il paravento", e i corpi dei familiari a formare una barriera. Poi l'annuncio: "Costruiremo aree per malati terminali"

Un maglioncino con lo scotch tenuto sospeso tra il muro e il paravento, e i corpi dei familiari per tutelare gli ultimi istanti di una vita al suo termine. È stata questa l’unica forma di privacy concessa per morire a un malato terminale, dopo 56 ore di agonia all’interno di un ospedale romano, il San Camillo. Avere diritto ad una morte dignitosa anche nella Capitale d’Italia è ciò che reclama Patrizio Cairoli, giornalista di Askanews, figlio dell’uomo stroncato da un tumore, in una lettera indirizzata al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, la quale si è detta “molto colpita” della missiva “perché ci sono dei punti molto gravi”.

“Abbiamo protestato – scrive alla Lorenzin il giornalista – chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri ‘servono per garantire la privacy durante le visite’; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera. Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch”.

Il ministro ha annunciato che invierà gli ispettori nel nosocomio romano, mentre il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti attende una “dettagliata” relazione dal direttore generale dell’ospedale e la senatrice M5S Paola Taverna ha annunciato un’interrogazione urgente per sapere quanto è accaduto.

La realtà è che l’azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini, uno dei più grandi ospedali romani, dove ogni anno ai suoi pronto soccorso si rivolgono più di 90mila persone, non ha ancora zone dedicate al fine vita. E dopo la morte, arriva anche l’annuncio beffa: “Grazie a risorse che la Regione Lazio ha messo a disposizione” sarà realizzata “una nuova area di Pronto soccorso che preveda tra le altre cose, due settori deputati al ‘fine vita‘ dove i malati terminali possano concludere la loro esistenza con dignità e assisti dal personale e confortati dalla vicinanza dei loro cari”, ha annunciato il direttore sanitario dell’ospedale, Luca Casertano – abbiamo un settore più tranquillo e defilato, ma purtroppo non era disponibile. L’area, non dedicata o strutturata, era occupata da un malato grave e da un altro fine vita”.

Ma c’è un’altra realtà ancora più difficile da metabolizzare e riguarda il perché il padre di Patrizio Cairoli non sia stato trasferito in un reparto. A spiegarlo è ancora il direttore sanitario del San Camillo: “È una questione complicata da comunicare. Si manda in un posto letto, magari di terapia intensiva, una persona che ha maggiore possibilità di giovarne” piuttosto che, aggiunge, “una di cui so, con assoluta certezza, che non potrò salvare”. Per il padre del giornalista non soltanto non c’erano speranze per questa malattia combattuta in tre mesi anche contro “l’indifferenza dei medici” ma soprattutto per l’epilogo deprivato della necessaria umanità e riservatezza “accanto anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti”.