Un paper di tre ricercatori dell'istituto previdenziale mette in luce come i buoni da 10 euro destinati in teoria al pagamento di prestazioni occasionali "per arrotondare" siano in realtà l'unica fonte di reddito per un'ampia platea di precari che non sono mai entrati "nell'Olimpo dei contratti stabili". "E se li abolissimo?", è la conclusione. Il problema è che in quel caso le imprese dovrebbero spendere di più
I voucher da 10 euro destinati sulla carta a remunerare le prestazioni di lavoro occasionale non fanno emergere il sommerso. Ma servono piuttosto a inquadrare una forma di lavoro precario e a basso costo, costringendo chi viene pagato in questo modo in un vero “girone infernale” da cui è difficile uscire. Lo scrive nero su bianco l’Inps nel suo recente Quaderno di ricerche sul lavoro accessorio. “Una delle (irrealistiche) aspettative del legislatore era che il voucher servisse per l’emersione dal nero”, si legge nello studio firmato da Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio. “Prove statistiche affidabili di un tale passaggio non sono state ottenute, né lo possono essere se non in via del tutto indiziaria”. E, ad ogni modo, si tratterebbe comunque di una “componente irrisoria”, come rivela l’analisi dell’ente previdenziale, che il presidente Inps Tito Boeri ha annunciato via Twitter presentandola come un compendio di “tutto (o quasi) quello che vorreste sapere sui voucher e non avete mai osato chiedere“.
Ma non finisce qui. Numeri alla mano, il sistema dei voucher mostra tutte le sue debolezze dando ragione al presidente Boeri, che lo ha definito “la nuova frontiera del precariato”. Tanto per cominciare, il voucher non è affatto un grande “successo”: certo i numeri sono in crescita esponenziale, ma “i valori assoluti del fenomeno in esame rimangono modesti, rispetto alla dimensione complessiva della domanda di lavoro”. Passando poi all’identikit di chi li riceve, per l’Inps non si tratta di persone che hanno già un impiego fisso e tentano di arrotondare, ma piuttosto di lavoratori precari che non riescono a sbarcare il lunario. “Chi pensa che il lavoro accessorio sia rilevante come secondo lavoro di soggetti già ben presenti e inseriti nel mercato del lavoro, con un rapporto di impiego ben strutturato, non trova certo conforto nei numeri – spiega l’Inps -. Possiamo anzi sostenere tranquillamente che è fuori strada: ovviamente la fattispecie esiste – con riferimento sia a dipendenti pubblici che privati – ma è lungi dall’essere quella dominante o anche, semplicemente, maggioritaria”.
Ma, allora, da chi è composto esattamente il popolo dei voucher? Su questo punto i ricercatori Inps non hanno dubbi: è il popolo degli eterni precari, che passano da un contratto all’altro senza grandi garanzie sul futuro. “In definitiva il popolo dei voucher, al netto dei pensionati, nella stragrande maggioranza non è tanto un popolo “precipitato” nel girone infernale dei voucher dall’Olimpo dei contratti stabili e a tempo pieno (Olimpo a cui spesso non è mai salito) – prosegue il documento – ma un popolo che, quando è presente sul mercato del lavoro, si muove tra diversi contratti a termine o cerca di integrare i rapporti di lavoro a part time. Appunto: “Quando è presente”.
Non a caso persino il governo si è recentemente visto costretto a correggere la mira sui voucher. Senza, tuttavia, recepire le istanze dei sindacati. Una storia già vista, secondo l’Inps, con i contratti di lavoro intermittente. Ma “se li abolissimo?” si chiedono provocatoriamente i ricercatori dell’ente previdenziale. “Così come sono stati inventati, anche i voucher possono essere aboliti. Ma ciò che non può essere abolito è il problema sottostante: come si pagano le attività di breve durata?”. In realtà, “le forze sociali che chiedono l’abolizione dei voucher ritengono che gli altri strumenti esistenti (lavoro a termine, lavoro somministrato) siano idonei e sufficienti a organizzare (e quindi pagare) anche le varie forme di lavoro accessorio. Il problema è che per andare in tale direzione occorre pagare dei prezzi“. Su due fronti: “Possibile inabissamento in nero (ma non ci sembra questo il punto principale)” ma soprattutto “crescita delle attività burocratiche (di intermediazione e di gestione) e del costo complessivo del lavoro“. Un grave rischio nell’ottica del governo, considerato che il ministero dello Sviluppo nella sua brochure per attirare gli investitori stranieri rivendica che in Italia “gli stipendi sono più bassi della media europea”.