Il processo penale contemporaneo, per il vero come anche quello antico, medioevale e moderno, suscita interesse, pulsioni sociali, contesa emotiva; tende all’odio verso il colpevole e compassione verso la vittima. Basta pensare ai casi di cronaca più recenti per rendersi conto di quanta enfasi popolare accompagni la storia dei processi. Ne cito solamente alcuni: la strage di Erba, gli omicidi di Garlasco, Perugia e, da ultimo, il processo a Massimo Bossetti. Ma questo accade anche per vicende giudiziarie meno cruente e sanguinose, ma ugualmente “sentite” dall’opinione pubblica, come i procedimenti contro l’ex premier Berlusconi, “mafia-capitale” o gli scandali per i conti esteri di questo o quel personaggio pubblico.
La tensione che si crea tra l’aula di giustizia e la società è palpabile e sostenere, come talvolta ha fatto la Corte di Cassazione, che tutto questo non possa incidere sul giudizio tecnico è un’illusione. Lo è per due motivi fondamentali: l’uno perché l’essere umano non è una macchina, il secondo perché è il diritto stesso che attribuisce al giudicante una funzione sociale attraverso lo scopo general-preventivo della pena che consiste nella portata educativa della pena stessa, non solamente nei confronti del reo, ma di tutta la società. Già l’antropologo e sociologo Durkheim aveva categorizzato quest’esigenza laddove affermava che il delitto causa una frattura nel tessuto sociale che viene rimarginata proprio attraverso la sanzione penale e dunque il processo. La collettività ha bisogno del colpevole per emendarsi dal delitto e per essere sicura di poter vivere in pace, senza pericolo. Persino l’avvocato cavalca questo istinto allorquando, sostenendo l’innocenza del proprio assistito, crea pressione emotiva sostenendo che “il colpevole è ancora in libertà”.
Il caso di Bossetti è paradigmatico in questo senso: il rapimento e l’omicidio della giovane Yara ha sconquassato la quiete della ristretta e civilissima comunità della provincia bergamasca ed il bisogno di sapere “chi è stato” è un’esigenza di vita quotidiana. Nel caso oramai quasi dimenticato dell’omicidio di Milena Sutter (Genova, anni Settanta) accadde qualcosa di molto simile: una bellissima ragazzina fu “prelevata” all’uscita dalla scuola, tenuta non si sa dove per alcuni giorni e poi gettata in mare. A Genova la “terra di nessuno”, dove far ritrovare un corpo esanime, è il mare; a Bergamo un campo incolto. A quel tempo i genitori avevano paura a mandare i propri figli a scuola, oggi accade lo stesso. E’ il “pericolo dell’accettare le caramelle dagli sconosciuti”.
Il processo, chiamato a giudicare di vicende così emotivamente devastanti, è, al contrario, un laboratorio scientifico di regole, di eccezioni, di cavilli che non sono perversioni da Azzeccagarbugli ma garanzie contro gli abusi, regole che garantiscono la logicità delle decisioni, strumenti per evitare che i protagonisti del processo operino da vittime dell’impulso e dell’emozione invece che da algidi tecnici. La toga rappresenta, metaforicamente, proprio questo: la necessità di far trionfare il diritto, cioè dire la scienza giuridica. L’errore cognitivo che “stacca” il ragionamento giuridico, per offrirsi all’impulso della sola general-prevenzione e quindi la necessità di ristabilire l’ordine e soddisfare la collettività con la sua “sete di giustizia” è manifestazione della “pop justice” e dunque del prodotto giudiziario “per la collettività”, come le opere pop, rispetto a quelle della tradizione, sono nate per essere trasfuse nei manifesti e nei posters, alla portata di tutti e per tutti.
Il diritto tenta di cautelarsi contro questo rischio attraverso la “rimessione del processo” che impone lo spostamento del luogo dell’udienza quando le condizioni ambientali non consentono un giudizio sereno. E’ del tutto evidente la difficoltà di capire quando il processo travalichi così tanto nel “pop” da incidere sulla terzietà del giudice.
Ancora una riflessione sul caso Bossetti: quanti possono comprendere l’anomalia di quella prova del Dna ritrovata sull’indumento intimo di Yara e quanto, proprio quella dislocazione della traccia sul suo indumento diviene una rappresentazione estetica capace di portare a errori di prospettiva rispetto al migliore giudizio (va ricordato che altre tracce genetiche di soggetti non identificati sono state trovate altrove ma ad esse non è stata data importanza). Com’è possibile che il Tribunale di Brescia abbia, durante l’indagine, dichiarato che è necessario fare chiarezza su quella prova e la Corte di Assise di Bergamo abbia potuto bypassare questa indicazione ritenendo quell’indizio “preciso”, oltre che “grave” e quindi pienamente capace di provare la colpevolezza di Bossetti?.
I giudici di Brescia si sono espressi in base ad una valutazione tecnica, che esigeva persino meno approfondito (perché la fase processuale era diversa) rispetto a quella del primo grado; eppure hanno stigmatizzato quella prova, dando le indicazioni, in diritto, di come rimediare al dubbio. Senza il rimedio suggerito, quel dubbio resta, come un macigno sul futuro del processo. In linguaggio giuridico il dubbio sulla prova si chiama “ragionevole dubbio” e porta all’assoluzione. Io credo che il processo, anche quello contro Bossetti, viva e sia vissuto di questa doppia natura, una tecnica, complessa e scientifica, l’altra emotiva, passionale, general-preventiva e sociale. Tutta la vita vive di questa dicotomia, anche il diritto. Lo ha spiegato al mondo il grande filosofo Nietzsche nella sua opera “La nascita della tragedia” laddove ha raccontato dell’eterna lotta tra lo “spirito apollineo” e lo “spirito dionisiaco”, dove il primo rappresenta la perfezione delle forme, l’armonia, la logica ed il secondo la passione, l’emotività, l’irrazionale. Il processo è come l’arte, deve trovare l’equilibrio tra il diritto apollineo e la società dionisiaca, tra il giudice apollineo e il coro (la pubblica opinione) dionisiaca. La vicenda di Bossetti è anche questo e forse, proprio per questo, appassiona la gente (il coro della tragedia greca).