20 dicembre 2015. È questo il preciso momento temporale a partire dal quale la Spagna ha lasciato la strada sicura dell’alternanza politica e della governabilità per infilarsi in un buco nero, un nuovo percorso costellato di instabilità, frammentazione, correntismo.
Sembra l’Italia degli anni 80, tuttavia con meno creatività. A quasi un anno dalle elezioni politiche del 20 dicembre i partiti spagnoli non sono riusciti a trovare una coalizione che consentisse di insediare un esecutivo alla Moncloa, non è bastata la nuova chiamata alle urne dello scorso giugno per raggiungere una maggioranza numerica o per sbloccare i veti incrociati che impediscono al premier uscente, il conservatore Mariano Rajoy, di formare un nuovo governo. Non sono bastati i richiami ideologici per costruire un accordo alternativo a sinistra, tra il Partito socialista (Psoe) e Podemos, con il possibile appoggio della formazione centrista Ciudadanos o dei partiti nazionalisti.
L’ultimo atto di uno psicodramma vero si è consumando in casa socialista dove un partito solido che negli ultimi quattro decenni ha guidato il paese per ben 21 anni, sta lentamente vedendo sgretolare le fondamenta sulle quali poggiava la sua storia e un’ideologia centenaria. Consensi al minimo storico, sospetti e gelosie con le formazioni collocate alla sinistra dello scacchiere politico, sguardo sempre più rivolto verso il centro moderato, sostanziale perdita di identità.
E da pochi giorni il segretario generale, il quarantenne Pedro Sánchez, costretto alle dimissioni dopo che il Comitato federale ha bocciato la sua proposta di un congresso straordinario. Una mossa politica disperata diretta ad allontanare le pressioni interne favorevoli al voto di astensione che permetterebbe al conservatore Rajoy di formare un governo di centro destra.
Proviamo a capire che segretario è stato Pedro Sánchez e quel che accadrà nei prossimi mesi, ne parliamo con Miguel Mora, direttore della rivista digitale Contexto (ww.ctxt.es), per molti anni corrispondente da Lisbona, Roma e Parigi del quotidiano El País.
«Sánchez è politicamente mediocre tuttavia almeno decente e limpido, e in un momento come questo sembra già tanto. Ha resistito al Partido Popular, che è il partito con più indagati per corruzione in Europa, ha sopportato pressioni asfissianti perché cedesse, ma ha resistito. Però gli è mancato il lampo per formare un governo con Podemos e i nazionalisti catalani, una boccata di ossigeno puro per il Psoe e per la Spagna. Di certo i poteri finanziari e mediatici hanno fatto tutto quanto possibile per impedire questo patto, a Pedro però è mancato il coraggio. E quando ha mostrato di averne, è stato messo da parte».
Il direttore spiega le ragioni della lacerazione socialista: «Il sistema bancario e l’Europa hanno sobillato il golpe de estado nel Psoe. Non potevano tollerare oltre la mancanza di governo, ancor meno un esecutivo di sinistra con socialisti e Podemos. Il sistema neo-liberale da 30 anni fa in modo che partiti socialdemocratici facciano politiche di destra e siano alleati dei conservatori, solo in Portogallo abbiamo visto un socialista allearsi con la sinistra radicale. Però la Spagna è la quarta economia europea, e lì non c’è margine possibile. Tina: There Is No Alternative!».
E sulle prospettive venture per il Psoe Miguel Mora è perentorio: «Il Psoe ricorda il Pasok greco», dice, «sembra condannato ad uno stesso destino, si è sottoposto ad suicidio assistito, scelto come vittima sacrificale dai poteri finanziari per mantenere in piedi il sistema. Sarebbe normale che faccia opposizione per alcuni anni, che vi sia una scissione di importanti dirigenti, che lasci più spazio a Podemos. Tuttavia, se avrà “suerte”, il PP governerà 4 anni, un tempo lungo per la politica».
Infine sul ruolo attivo che in questa vicenda ha avuto El País – icona informativa vicina alle posizioni progressiste – il quale in un editoriale del 29 settembre invocava le dimissioni di Sánchez in favore della governabilità, l’ex corrispondente ha le idee chiare: «El País non è mai stato un foglio di sinistra, bensì liberale e di centro-sinistra. Ora non è il giornale di trenta, dieci o cinque anni fa, il suo direttore è un neocon vicino al Partido Popular, amico del Re, affine ai repubblicani americani, filo-israeliano, e – come se non bastasse – fanatico del Real Madrid». «Un signore molto di destra», continua, «che da corrispondente negli Usa tifava Romney contro Obama. Però questo, essendo sintomo, è soltanto un incidente, ciò che conta è che gli azionisti di riferimento di Prisa, il gruppo editoriale, sono i creditori stessi del giornale, il Banco Santander e La Caixa (i due istituti spagnoli più importanti), e ancora il “fondo buitre” britannico Amber Capital, di proprietà di un messicano vicino al presidente Peña Nieto e di uno sceicco del Qatar. Non è più l’amato quotidiano della famiglia Polanco, piuttosto è megafono di politiche di destra, con perdita di lettori, soprattutto tra i giovani. E’ però vero che i suoi editoriali hanno più peso sui dirigenti socialisti che sulla militanza».