Aveva picchiato un clochard – Giuseppe Turrisi, 58 anni – fino a farlo morire, poche ore dopo all’ospedale. Addosso, Emiliano D’Aguanno, indossava una divisa, quella della polizia ferroviaria di Milano. Ma quando fu condannato definitivamente a oltre 11 anni di carcere, l’ex agente D’Aguanno non accettò di finire in carcere, di scontare la pena che lo Stato che doveva servire aveva deciso per lui. Così fuggì in Sud America. Ora D’Aguanno, 35 anni, è stato arrestato dalla squadra mobile di Milano – insieme all’Interpol – a Bogotà, in Colombia, dove si trovava da qualche anno. A tradirlo la sua passione per il calcio: si era iscritto alla squadra della sua universitaria e così la polizia lo ha rintracciato e identificato definitivamente. “È un po’ cambiato da allora – racconta il dirigente della Mobile di Milano Lorenzo Bucossi – E’ più magro e con i capelli lunghi raccolti in un codino. È stato tradito dalla sua grande passione per il calcio, faceva parte della Cun, una squadra universitaria. Chiaramente i suoi compagni non avevano idea della sua storia. Ci tenevamo molto che a prenderlo fosse la polizia di Milano“. Di quel corpo, 8 anni fa, aveva sporcato la divisa.
L’omicidio – preterintenzionale, come lo definisce il codice penale – l’ex agente D’Aguanno lo commise negli uffici della polizia ferroviaria della stazione centrale di Milano. Era il 6 settembre del 2008. D’Aguanno e il collega Domenico Romitaggio portarono negli uffici della Polfer il senzatetto, Giuseppe Turrisi, 58 anni, che passava le sue giornate alla stazione da circa tre anni. Secondo la ricostruzione dei magistrati il motivo per cui il clochard fu accompagnato negli uffici della polizia era un “battibecco” tra lui e i due poliziotti. Il pm che condusse le indagini spiegò che Turrisi rimase per 35 minuti “in balia dei due“. Turrisi entrò con i suoi piedi ed uscì in barella e poi con l’ambulanza. In mezzo, solo violenza, un “pestaggio debordante e selvaggio” sarà definito dai magistrati. A risultare determinante furono le botte che provocarono la rottura della milza: le emorragie interne furono fatali. A causarle un calcio al costato sferrato con gli anfibi. Oltre la violenza, poi, si aggiunsero anche le menzogne. “Se non fosse stata disposta l’autopsia dal pm di turno, non saremo qui a processo – aveva aggiunto – perché nell’annotazione redatta dai due agenti su quella sera, si dava notizia solo di un barbone che si era sentito male e poi era morto”.
In primo grado la Corte d’Assise aveva condannato il solo D’Aguanno a 10 anni, contestando a Romitaggio la sola falsificazione dei verbali. In appello, invece, i giudici decisero che entrambi ebbero un ruolo nel pestaggio di quella notte e che non c’era spazio per nessuna attenuante. Così furono condannati a 12 anni. Infine la Cassazione confermò la colpevolezza e i capi d’imputazione, diminuì solo la pena, a 11 anni e 4 mesi.
La sentenza definitiva fu pronunciata nell’ottobre 2014. Ma se Romitaggio si consegnò il giorno dopo, D’Aguanno fuggì in Sud America. Atterrò a Buenos Aires dopo uno scalo a Madrid, poi in pullman prima in Ecuador e infine in Colombia. Si era rifatto anche una vita. Aveva cominciato a studiare, si era iscritto all’università, si manteneva dando lezioni di italiano, viveva in un monolocale del centro della capitale colombiana. Aveva anche il progetto di aprire un’agenzia di viaggi, ma anche la passione per il calcio. Aveva chiesto e ottenuto di entrare nella squadra della Cun, una sorta di Cus dell’università di Bogotà. E la sua scheda da giocatore è finita su internet. Lì, i suoi ex colleghi della polizia, lo hanno trovato.