C’è un uomo – che l’autore non smette mai, per tutta la narrazione, di chiamare interamente per nome e cognome: Adelmo Farandola. C’è una montagna, una valle intera, che Adelmo Farandola possiede, e poiché la possiede, è convinto di possedere anche i cervi che la abitano, le marmotte, le grotte, le pietre, il pezzo di cielo che affaccia là sopra, anche gli uomini che passano di lì. In quella valle lui fa quello che vuole, se vuole ammazza pure un cristiano oltre che le bestie. Lì tutto è suo, la vita come la morte. Poi c’è un cane che, a un certo punto, gli compare a fianco magicamente, come se una parte di sé – quella più scura e fragile – avesse voluto proiettare la propria solitudine in qualcosa di vivo, perché al pari dell’uomo anche la sua solitudine ha bisogno di mangiare, bere, dormire, fare i bisogni.

“La solitudine di anni confonde la realtà vera delle cose e quella sognata”.

E poi, insieme all’uomo e al cane, c’è la neve che tumula la valle, le valanghe che la cambiano, il ghiaccio tombale che conserva e, nello stesso tempo, sotterra. In quel ghiaccio sbuca un piede, un pezzo di uomo che sia il cane sia Adelmo non hanno idea a chi appartenga. Quel piede è un pezzo di uomo qualunque, e, come qualunque uomo, Adelmo è sopraffatto dalla scoperta che gli esseri umani muoiono e si decompongono, come i cani e gli animali tutti. E poi c’è un’altra cosa assieme all’uomo, al cane, alla neve e al piede: c’è la memoria. Una memoria zoppa che Adelmo non afferra più tanto bene, che scivola via come una valanga e come una valanga sotterra tutto  – i ricordi, certo, ma anche un presente che si è smesso di possedere.

Neve, cane, piede di Claudio Morandini (Exorma edizioni) è una storia archetipica, è la storia di quando l’essere umano si ficca nelle caverne per proteggersi dalla natura primitiva, ma, anche, per capire il senso di quello che la vita gli fa vivere. Morandini infila Adelmo Farandola dentro questo imbuto qui: quello del mito in cui si fissa la solitudine, lo scompiglio umano fagocitato dai bisogni di una natura più forte, la dolcezza di una vita che tenta di attecchire nel ghiaccio e che, sempre, cerca un amico per conforto. Non ci dà scampo, Morandini: ogni frase, ogni parola ha il gesto secco di uno schiocco di dita, e la ruvidezza delle pietre, appena rotolate giù.

Durante la lettura ho sentito una voce rimbombare lentamente, qualcosa di familiare e lieve che sussurrava in testa. E allora mi sono ricordata di Silvio D’Arzo, di quel superbo racconto che è Casa d’altri (Einaudi), con quella sua particolare atmosfera quasi gotica, quel suo dire poco, pochissimo, lasciando al lettore quasi tutto il compito di raccogliere un senso. Ecco, in questa storia c’è quel sortilegio che pure si trova in Casa d’altri, e che tutti i racconti belli (questo libro potrebbe essere considerato un racconto lungo) devono possedere: un mistero intimo, che preme e ci chiama, che fa capolino ogni tanto tra una pagina e l’altra. Raccontare un racconto è saper tenere un segreto, ci dice Andrés Neuman. E Adelmo Farandola ne custodisce un immenso, complicato, struggente, che appartiene a tutti noi, che sta nascosto in fondo a una grotta buia e umidiccia, in cui ci tocca scavare, e scavare.

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