E’ stato uno degli uomini che mi ha fatto viaggiare di più!
Di fatto aveva navigato solo qualche settimana, sull’Adriatico, ma ci ha fatto sentire l’odore del mondo.
Era nato a Verona nel 1862, e il suo nome è un vascello leggendario e disperato: Emilio Salgàri.
A quell’epoca, doveva averlo immaginato diverso, il suo futuro. Ma vale per tutti, credo. Il fatto è che a volte, ingenuamente, non ci accorgiamo d’averlo fatto minore della realtà.
Ora sappiamo che i racconti di mari, terre e avventure piratesche li forgiò esclusivamente sulla base delle proprie letture e con la potenza straordinaria della fantasia. Dal primo racconto a puntate per un giornale di Milano, I selvaggi della Papuasia, alle opere che dopo la sua morte sono diventate film, telefilm, e poi gadget, mostre, videogame, Salgàri fu accompagnato da un unico denominatore comune: la povertà. Nel mondo del diritto d’autore, sarebbe potuto diventare un magnate, e invece non potè quasi mai neppure sfamare se stesso e la famiglia.
La storia della sua vita, del resto, è un tragico romanzo di letteratura, un viaggio negli abissi.
Sua madre morì nel 1887, e nel 1889 il padre Luigi, che, credendosi gravemente malato, si gettò dalla finestra di casa di un parente. Pochi anni dopo Emilio sposò Ida Peruzzi, attrice di teatro, da cui ebbe quattro figli, e si trasferì a Torino.
84 romanzi, 150 fra racconti e novelle di ogni genere, dal western ai pirati, ambientando le storie a Cuba, nelle Filippine, ai poli e nei deserti, facendo attraversare foreste e catene montuose, incurante della grammatica e della sintassi (per la fretta dovuta ai tempi imposti dagli editori), concentrato a ricavare ogni giorno quante più pagine riuscisse, di modo da guadagnare almeno il necessario al sostentamento dei propri cari. Le sue opere vengono tradotte in Francia, Russia, Spagna, Sudamerica, Germania. Ma lui rimase povero. Tanto che per potersi permettere le cure per la moglie, che manifesta i primi sintomi della demenza, si mise a tradurre altri autori. Ma anche questo non bastò e cominciò a contrarre debiti. Poi la salute della moglie peggiorò e fu costretto a farla rinchiudere in manicomio.
I contratti lo obbligavano a pubblicare almeno tre libri l’anno, che significava tre pagine al giorno. Se avesse voluto riposare un giorno, o non fosse stato bene, il giorno successivo le pagine da affrontare sarebbero state il doppio. Scriveva bevendo Marsala e fumando cento sigarette al giorno.
Fino a che i nervi cedettero. Tentò il suicidio una prima volta nel 1909, gettandosi su una spada! Ma venne salvato. Mentre la mattina del 25 aprile 1911 lascia sul tavolo tre lettere ed esce di casa con un rasoio in tasca. Le lettere sono indirizzate ai figli, ai direttori dei giornali, e agli editori.
Scrisse a un amico: “Sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno e della notte, e quando riposo sono in biblioteca a documentarmi. Devo scrivere cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di correggere.”
Nella lettera ai figli, lasciata sul tavolo il giorno del suicidio del 1911, scrive: “Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600 che incasserete dalla signora…”. Poi li avverte che potranno trovare il suo corpo in un piccolo burrone del bosco, nella collina che sovrasta Corso Casale, dove vivono, a Torino. Ma venne trovato per caso da una lavandaia ch’era nel bosco a far legna, tale Luigia Quirico. Lo scrittore ha la gola e il ventre squarciati, in mano ancora il rasoio. Si uccise come avrebbe potuto uccidersi uno dei suoi personaggi, facendo harakiri e col viso rivolto al sole nascente.
Agli editori lascia scritto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.”
In realtà dopo la morte, furono proprio loro a entrargli in casa per saccheggiare di tutto: appunti, schizzi, racconti e romanzi incompiuti…
La moglie Ida morì in manicomio nel 1922. La figlia Fatima, nel 1914, giovanissima, rimase vittima della tisi. Romero morì anch’egli suicida. Il fratello Nadir morì nel 1936 per un incidente in moto. Fu poi la volta di Omar, che nel 1963 si buttò dal secondo piano del suo alloggio.
Il proprio futuro, Salgàri, doveva averlo immaginato diverso… Non navigò praticamente mai e non divenne uomo d’avventure e pirateria, ma… aveva un atlante sulla scrivania! E grazie a quello, e alla sua testa disperata e fantastica, sono più di cent’anni che ci fa viaggiare il mondo e il tempo! Antepose ogni giorno, a quella realtà volgare e feroce, una forma di bellezza e di giustizia incorruttibili alle quali, fino al 25 aprile 1911, diede ogni oncia del proprio intelletto e del proprio corpo. Essere o sognare d’essere, a volte, sono la stessa cosa.