Per formarsi una coppia ha bisogno di due persone, per separarsi invece ne basta la metà, una sola. Sembrerebbe quindi che dividersi comporti un deciso risparmio energetico rispetto allo stare insieme, ecco perché le relazioni terminano, è la pigrizia che muove il mondo, per tanti immagino sia una bella notizia, un incentivo per andare alla riscoperta della propria passività, troppo spesso sottovalutata.
Due è il numero magico, uno quello decisivo, dal tre in poi sbrogliatevela da soli, è già difficile la disamina sui piccoli numeri per poterla sostenere anche sui grandi. Ora che spero di avere ottenuto la vostra attenzione con un po’ di leggerezza, riprendo l’argomento seriamente.
Se un membro di una coppia vuole terminare il rapporto, è libero di farlo, a livello teorico, però può riscontrare qualche difficoltà a livello pratico. Rifiutare è più semplice di saper accettare un rifiuto.
Lasciare una persona può comportare, da parte di quest’ultima, tre diversi tipi di reazione:
1) accettare la separazione, farsene una ragione, prendere forse atto che è reciproco non sentire un trasporto tale da continuare il rapporto, dispiace, ma si è quasi subito pronti ad andare avanti;
2) accettare la separazione, ma soffrirne enormemente, tentare di riagganciare il partner, facendo presente il proprio stato emotivo, non superando però dei limiti che condurrebbero a invadere e non rispettare la volontà dell’ altro, per un po’ ci si può muovere lungo delle linee di confine. E’ dura andare avanti, ma con il tempo si riesce. Nessuno muore per amore;
3) non accettare la separazione, non rispettare la volontà dell’altro, invaderlo con comportamenti fuori luogo che possono andare, alternandosi, da gesti estremi di affetto ad atteggiamenti e comportamenti aggressivi, rabbiosi, intimidatori, persecutori e violenti mossi da un personale e disfunzionale senso di giustizia. L’altro non solo deve essere consapevole della sofferenza inflitta, ma deve sentirsene responsabile. Nessuno muore per amore, ma ci si può fare davvero male per sentimenti spacciati come tale.
Le relazioni non sono scienze esatte, nonostante gli studiosi dell’argomento siano in numero identico ai loro oggetti di studio. Le tre possibili risposte al rifiuto le hanno sperimentate in molti, semplifico consapevole che non ci sono confini netti tra una reazione e l’altra.
Per fronteggiare certi no non basterebbe un esercito, figurarsi un singolo individuo, e questo, a mio avviso, vale ancora di più per gli uomini molto più legati delle donne all’idea di possesso, di virilità intesa come invincibilità, all’ansia di prestazione, al pensarsi come il sesso forte, quello che non accetta di ritrovarsi debole ossia fragile, un no espone al proprio limite e quindi alla propria vulnerabilità.
Se ci si sente vulnerabili lo si vuole negare, convincersi del contrario, e come affermarsi, se non utilizzando la forza della quale ci si sente mancanti trasformandola in aggressività di cui sono in pochi invece a essere carenti? Come sentirsi più uomini, nel momento in cui gli altri vorrebbero farci credere il contrario, se non entrando, a pieno titolo, nello stereotipo di uomo che non deve chiedere, ma ottenere? Come genere maschile, spesso siamo culturalmente indotti a convinzioni che risultano essere un pericoloso mix di presunzione, ideologia e frustrazione camuffata da rabbia.
Il fine giustifica i mezzi, ma a volte anche i fessi e questa è verità umana, non di genere. Lo stereotipo costituisce una zona di comfort nella quale rifugiarsi, quando ci si sente attaccati. Esso diventa una fortezza inespugnabile, se crediamo che i nostri valori e il nostro valore siano messi in discussione, è davvero difficile andare alle sue radici per provare a demolirlo, ecco perché bisogna pensarci prima, distruggere la fortezza, quando è ancora in costruzione, non quando è completata. I lavori in corso durano una vita intera, ma tutto viene sempre a essere costruito sulle prime fondamenta.
Educare viene dal latino e-ducere che significa condurre fuori, educare all’affettività deve significare portare fuori il sentimento, non tenerlo dentro, solo alla luce del sole lo si guarda in faccia e lo si riconosce, imparando a gestirlo.
Non si hanno relazioni che funzionano tra persone che non funzionano. Le relazioni dipendono dagli individui più di quanto gli individui possano dipendere dalle relazioni, perché in ogni singolo individuo, sono convinto, c’è quasi sempre la possibilità di operare delle scelte legate, ma in parte anche indipendenti, dalla storia passata. Una condanna è tale solo a patto che ci sia il condannato.
Vignetta di Pietro Vanessi