Il percorso letale dell’uragano Matthew, il più poderoso (categoria 5) degli ultimi anni nel bacino atlantico, ha risparmiato all’ultimo minuto la Giamaica, seminando invece morte e distruzione nell’oriente cubano, Repubblica Dominicana e soprattutto Haiti. Drenaggio stradale fatiscente, accessi fognari intasati o inesistenti, deforestazione e baracche costruite su greti di fiume e canali di scolo, sono magagne che aggravano danni e perdite umane. Magagne che condividiamo.
Giamaica graziata, Haiti mai
Quando il premier giamaicano Andrew Holness rivolse il suo accorato appello alla popolazione, mentre Matthew procedeva dritto su l’isola, paradossalmente proprio i settori più esposti al rischio catastrofe, scrollarono le spalle.
Pescatori, e poveracci che vivono dentro baracche di lamiera zincata che punteggiano periferie e zone rurali, hanno affidato alla clemenza di Jah Rastafari, il Dio rasta, la chance di essere risparmiati. Nel frattempo la classe media, memore dei lutti che causarono Gilbert nel 1988 e Ivan nel 2004, saccheggiava i supermarket, svuotando scaffali, e riempiendo le tasche dei proprietari cinesi e indiani. Il 3 ottobre, data prevista per l’impatto, l’uragano all’ultimo ha deviato verso Cuba, sferzando solo con la coda la Giamaica, che ha subito comunque diluvi e allagamenti nelle provincie di St Thomas, Portland e downtown Kingston. Jah alla fine è stato pietoso.
Evidentemente la sua giurisdizione era limitata; difatti i giorni successivi, è scoppiato l’inferno nell’oriente cubano, soprattutto nelle città di Baracoa e Guantanamo, nei pressi della base militare Usa, a sud dell’isola. Venti a 140 mph (miglia per ora, circa 230 km) han spazzato via le antiche abitazioni di Baracoa, e le casine di Maisì, Santiago e Guantanamo, lasciando circa 86.000 senzatetto.
La pioggia, 55 cm in 24 ore, e onde di circa 10 metri han fatto il resto; solo la prevenzione governativa, che prima dell’impatto ha evacuato 36.000 residenti a Baracoa, e 250.000 a Santiago, è riuscita a evitare il peggio, intervenendo poi di urgenza nelle provincie colpite.
Non così fortunati a Haiti, che ancora una volta paga lo scotto peggiore in termini di perdite umane; sono già un migliaio, le vittime. Come se non fosse bastato l’apocalittico terremoto che sterminò 230.000 persone nel 2010, e la successiva epidemia di colera, causata tra l’altro proprio dai caschi blu Onu, che falciò 10.000 haitiani. Les Anglais, Tiburon, Les Cayes, le aree rurali che hanno subito più morti. La mancanza di barriere naturali, come quella costituita dalle Blue Mountains in Giamaica, e la Sierra Maestra al sud di Cuba, ha fatto sì che la furia si abbattesse senza pietà, complice anche la deforestazione indiscriminata, iniziata nel 700’ schiavista per favorire le monocolture di caffè e canna da zucchero, proseguita poi nel 19° secolo con il taglio di alberi dopo la rivoluzione, per ripagare con il legname 90 milioni di franchi alla Francia, da cui Haiti si era emancipata.
L’assenza di fondi interruppe poi la riforestazione nel 2006, sancendo la definitiva erosione del suolo. Allo stato attuale, si teme la ricomparsa del colera, soprattutto a causa della mancanza di antibiotici, e della scarsità di medici, che han disertato in larga parte gli ospedali locali.
Le cifre di aiuto ai Caraibi da parte di Stati Uniti e Canada sono per ora minime: 500.000 dollari, di cui solo 100.000 a Haiti. Obama ora concentra le risorse a casa sua; già 4 morti in Florida, con il ciclone che ha raggiunto la South Carolina, lasciando senza luce mezzo milione di abitanti.
Costruzioni a rischio perenne
Se la furia degli elementi naturali è imponderabile, la trascuratezza umana nella prevenzione e nei tempi d’intervento è criminale; i quartieri poveri giamaicani, così come quelli di Hispaniola, di cui fan parte Haiti e Repubblica Dominicana, e l’Oriente cubano da Las Tunas, passando per Holguin, fino a Guantanamo, condividono povertà estrema e stato di abbandono da parte delle istituzioni, che dedicano solo alle capitali e alle strutture turistiche gli investimenti.
L’edilizia popolare a norma pianificata dai governi è latitante: si deroga all’iniziativa dei privati senza fondi una mission impossible; l’arte povera di arrangiarsi, deve sopperire alla mancanza di terreni edificabili, sfruttando zone a rischio perenne come i greti dei fiumi e i canali dell’acqua piovana per costruire baracche di lamiera o murature fatiscenti. Passando per Washington Blvd a Kingston, osservavo casupole erette sui pendii del gully (canale) dove scorrono limacciose le acque di scarico, il cui flusso è sovente intasato da detriti e immondizie; quando piove a dirotto, spesso sale e deborda fuori dagli argini, invadendo le abitazioni. Una lingua chilometrica di vomito, che attira anche l’Aedes aegypti, la micidiale zanzara portatrice di dengue, febbre gialla e virus Zika qui, come nel Sud-America. La mancanza di drenaggio stradale e i tombini otturati, provocano colate di fango bibliche, che si estendono fino ai centri commerciali. Tranne che a Cuba, non esiste una procedura di evacuazione efficace, e gli shelters, i centri di ricovero, sono scarsi, e mal organizzati.
Affidarsi quindi alla benevolenza degli Dei, è pratica comune. Che nel caso di Haiti voltano costantemente la testa altrove. Se Sparta piange, Atene non ride: si veda l’emergenza dei giorni scorsi a Ostia, quando una tromba d’aria di pochi minuti, avvenuta durante un temporale, ha provocato un nubifragio, con allagamenti che hanno esondato all’interno dei negozi da via delle Azzorre, fino al lungomare Toscanelli. Traffico paralizzato, 113 senza risposta, pompieri assenti. Dobbiamo anche noi sperare che esista almeno un dio minore, che ci salvi dall’assenza dello Stato.