“Appena ho visto la Mole Antonelliana mi sembrava di essere ne La fabbrica di cioccolato di Tim Burton”. Lo sguardo divertito è quello di Gus Van Sant, a Torino per inaugurare la mostra Icone che fino al 9 gennaio 2017, proprio dentro la Mole cioccolatosa, ospiterà l’eterogenea produzione artistica del regista di Belli e dannati. Lungo il ballatoio a spirale che avvinghia come un’edera l’interno del Museo del Cinema, si sale al cielo torinese con un corridoio en plein air tappezzato alle pareti di cut-up, dipinti, foto di scena, polaroid formato tradizionale e ingrandite (non perdetevi quelle di Keanu Reeves e Matt Damon che sembrano due poppanti), folgoranti story-board come il foglio con la piantina della scuola di Elephant e i percorsi al suo interno dei personaggi colorati con il colore del loro vestito sul set, accostamenti tra sequenze di pellicole, perfino una postazione con cuffie per ascoltare alcuni brani scritti ed eseguiti dal Van Sant musicista.
L’artista che alle soglie del nuove millennio non riesce e non può rimanere rinchiuso tra le quattro anguste mura del cineasta e che quindi sovraespone strumenti e risultati della sua iperattività alla ricerca di uno stile, della bellezza, dell’eterno. 64 anni, 16 film all’attivo, una serie tv – la sua prima- in post produzione, Van Sant ha saputo mescolare un’attenta ricerca e sperimentazione dell’immagine con quello che spesso viene definito ‘impegno politico’: vuoi per i diritti civili trattati ripetutamente da uno dei più influenti omosessuali degli Stati Uniti solo con un esempio come Milk; vuoi per la questione ambientale in un affresco etico mozzafiato come Promised Land; vuoi per l’infinita attenzione all’equilibrismo (a)morale dell’adolescenza statunitense sempre al centro di atti e gesti radicali (Elephant). “I film possono cambiare la società”, spiega Van Sant a FQMagazine. “Il cinema ha sempre illuminato, dimostrato, persuaso, educato ed istruito le persone, e possiede sempre un messaggio politico. Una storia drammatica ha di per sé sempre la capacità di cambiare le persone. E’ come quando si legge una rivista di moda, l’aspetto di intrattenimento prevale ma c’è poi un discorso di approfondimento, un lavoro d’indagine come possono farlo certi reportage su temi politici”.
C’è poi questo scambio di patenti che complice la Nouvelle Vague, noi europei continuiamo ad usare indisturbati per separare il grano dal loglio: l’ “autore”. “Sì, mi sento un autore, ma è un concetto che dagli anni sessanta si usa in Europa ma che negli Usa di fondo non esiste. Per me però tutto dipende dal progetto o dalla situazione, a seconda delle circostanze mi piace diventare un regista utilitaristico. Quindi da un lato continuo ad esercitare il controllo della mia opera, poi però mi metto al servizio delle aspettative della produzione. E’ un modo che mi permette di uscire dal mio universo e di fare cinema con uno stampo modello vecchia Hollywood che non mi dispiace. E’ ciò che accadde la prima volta con Will Hunting-Genio ribelle che non era un mio script. Mi cimentai in questa avventura e non sapevo cosa sarei stato in grado di fare. Poi sono tornato al mio modo originale di fare film, quello che mi ha spinto ad iniziare a fare il regista. Io mi considero un “auteur” in questi termini”.
Tre caffè espresso bevuti con gusto e in pochi minuti come fossero ‘americani’, la focaccia genovese che surclassa la presenza tra le tavole di un ristorante stellato, Van Sant è un composto e curioso turista del Kentucky che si aggira tra gli isolati torinesi attirato da un casuale venditore di frutta e verdura in mezzo al caos di un’enorme piazza travolta da lavori in corso. “Venni in Italia, a Torino, per la prima volta nel 1988 al Torino Gay & Lesbian Film Festival per presentare Mala Noche”, racconta la Palma d’Oro a Cannes 2003 per Elephant. “Da quando sono qui mi chiedete tutti di Trump. L’ipotesi che diventi presidente mi spaventa. Se questo accadrà sarà una calamità per gli Stati Uniti e un disastro per l’intero mondo. Pochi mesi fa nessuno poteva immaginarlo. Oggi dico solo che in questi due mesi che ci rimangono tutto può accadere”. Un parallelo professionale di trasformazione che investe lo stesso Van Sant all’opera, dopo trentacinque anni di cinema, nuovamente su tematiche dell’impegno sui diritti dei gay, ma con un nuovo mezzo da esplorare e vivere: la serie tv. When we rise, targata ABC, racconta di tre attivisti dei diritti civili omosessuali che arrivano a San Francisco nel 1972 in piena epoca Harvey Milk e i loro successivi trent’anni di attivismo. Van Sant ha girato i primi due episodi e, a quanto dicono persone ben informate, prima di iniziare a girare ha fatto un corso accelerato di serie tv vista il suo totale, precedente, disinteresse. “Adoro però Transparent. E comunque non c’è una gran differenza tecnica rispetto al cinema. L’unica diversità è che mentre nella serie hai un lasso di tempo della narrazione più lungo su cui lavorare, quando giri un film hai un mano un girato di otto, nove ore e lo devi ridurre a meno di due. Ad ogni modo When we rise sarà visibile in tv nel 2017, nonostante Trump”.