Buoni e cattivi. Regimi e fondamentalisti. Americani e russi. Morti eccellenti e numeri vuoti. Sono alcune delle categorie e delle dicotomie di cui il nostro immaginario è pieno. Del mondo arabo e islamico non si vedono le sfumature: quelle che ci spiegherebbero la complessità dell’oggi, aiutandoci a risolvere i problemi e le incomprensioni che alimentano uno scontro fatto di stereotipi e di bombe. Il primo elemento sono le tifoserie. Il caso più celebre è quello di chi sostiene i palestinesi o gli israeliani, quasi che queste due popolazioni fossero dei blocchi monolitici o squadre di calcio. Non si vedono i palestinesi che criticano Hamas e Fatah o gli israeliani che fanno altrettanto contro il loro governo. Chi fra palestinesi e israeliani compie questa scelta spesso, qui nella nostra comoda Italia, è visto come un “traditore”: qualcuno che tradisce la causa – perorata dal nostro divano! Questa causa o cause, che godono di una ampia tifoseria da bar, spesso sono portate avanti senza un’adeguata preparazione: la mancanza di una prospettiva e contestualizzazione storica.
Le morti eccellenti e i numeri. In Medioriente il morto lo fa chi lo ammazza. Se è un fondamentalista a uccidere allora è possibile che la vittima, il suo volto e il suo nome, guadagni la prima pagina. Questo perché la vittima si identifica con “noi”: è uccisa dal “nostro stesso nemico”. Per i morti da bomba, come quelle sganciate ad Aleppo, no, non c’è spazio. Questo per due motivi: chi sgancia le bombe fa parte dell’Occidente – si intende la Russia – e la bomba è frutto della nostra modernità. Se sono gli americani a sganciare bombe, allora il dibattito parte fino a impennarsi perché gli americani, nel nostro immaginario collettivo, sono storicamente compromessi in Medioriente. Nel caso americano, si comincia a parlare di “bombe intelligenti”, “esportazione della democrazia”. Anche le bombe saudite in Yemen, contro i civili e i miliziani Huthi sostenuti dall’Iran, sollevano indignazione perché i sauditi sono identificati con gli americani: i loro alleati regionali. Invece, i migliaia di pasdaran e afgani in Siria non riescono a bucare lo schermo.
Con tanta semplicità viene affibbiata la parola “terrorista” a chi è contro di noi e il nostro schieramento. “Gli israeliani sono tutti terroristi”, “i palestinesi sono tutti terroristi”, “ad Aleppo est ci sono solo terroristi”. Terrorista diventa la parola prediletta per demonizzare l’altro e rubargli ogni possibilità di controbattere, portando avanti un suo discorso politico. Il governo di Damasco, fin dal 2011, ha liquidato l’opposizione e i manifestanti in piazza come “terroristi”. Il governo di Teheran fece lo stesso con i giovani dell’Onda verde del 2009-2010. Al Sisi, in Egitto, ha etichettato come “terrorista” ogni oppositore, sia esso socialista o islamico. In fin dei conti, tutti questi governi possono contare sulla nostra paura verso l’islam. Così, basta dire che uno è un terrorista islamico per poter far leva su una paura profonda, maturata dopo il 2001 da quello che è “l’Occidente”, per poter far dimenticare che l’interlocutore, Asad, al Sisi, o il governo a Teheran, ha responsabilità enormi a riguardo della violazione dei diritti umani. I regimi autoritari diventano i “mali minori”.
Del Medioriente manca “la certezza storica”. Tutto può essere letto, scritto e raccontato sui giornali o al bar con uno sguardo complottista e banale. Colpa di un mondo accademico che fino ad ora non ha voluto bacchettare chi, occupandosi di Medioriente, continua a dire castronerie: non conosce la differenza fra un sunnita e uno sciita o non sa, ancora, in che anno Hafez al Assad ha fatto il colpo di stato in Siria. D’altra parte, spesso chi si occupa di Mediorente (qualificandosi come esperto) è mosso da “una passione”. Una passione che non può bastare se non sostenuta dalla continua ricerca e dallo studio di una storia che c’è e che merita di essere adoperata per contestualizzare quello che avviene.
Purtroppo, c’è la consapevolezza che quanto appena scritto cadrà nel vuoto. Guardando al futuro, con una prospettiva da qua a qualche decennio, potremmo dire che l’enorme quantità di cose scritte sul Medioriente da “appassionati” commentatori alimenteranno la costruzione di un senso comune nella nostra società (liquida e che si confronta con l’islam) che produrrà equivoci e incomprensioni. Da ciò, non può che nascere un malessere sociale che avrà anche declinazioni violente con le quali faremo i conti.