Troppi argomenti diversi in un unico quesito. E in questo modo il voto al referendum costituzionale del 4 dicembre potrebbe non essere libero, come invece prevede la Costituzione. Per questo a chiedere che sulla scheda elettorale si pronunci la Consulta è Valerio Onida, ex giudice costituzionale e ex presidente della Corte. Onida – uno dei saggi di Napolitano nel 2013 – ha impugnato il decreto del presidente della Repubblica per l’indizione del referendum davanti al Tar del Lazio e al tribunale civile di Milano. Si tratta di un ricorso d’urgenza con il quale l’alto magistrato chiede la sospensione dell’avvio della consultazione. Con Onida ha firmato il ricorso anche Barbara Randazzo, docente di Diritto costituzionale all’università di Milano (dove Onida ha insegnato per quasi 30 anni). Il tema dello “spacchettamento”, cioè della necessità di una pluralità di quesiti, è emerso più volte durante l’estate, senza però che nessun tribunale avesse potuto pronunciarsi per un rinvio alla Corte Costituzionale. Peraltro, vari sondaggi hanno illustrato come su diversi temi della riforma gli elettori siano favorevoli, ma voterebbero No alla legge in senso complessivo.
Il ricorso di Onida
Nel ricorso al tribunale di Milano si chiede di accertare, in via d’urgenza, il diritto dei ricorrenti a votare “su quesiti non eterogenei, a tutela della loro libertà di voto“. Il ricorso al Tar, che fa leva anch’esso sul diritto di voto “in piena libertà, come richiesto dagli articoli 1 e 48 della Costituzione”, “è rivolto contro il decreto di indizione del referendum medesimo, in quanto ha recato la formulazione di un unico quesito, suscettibile di un’unica risposta affermativa o negativa, pur essendo il contenuto della legge sottoposta al voto plurimo ed eterogeneo“. Per questo si chiede l’annullamento, previa sospensione, del decreto del presidente della Repubblica di indizione del referendum e di “ogni altro atto preliminare, connesso o conseguenziale”. Il ricorso ricorda inoltre come “i necessari caratteri di omogeneità” del quesito referendario siano “gli stessi richiesti secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale relativa al referendum abrogativo“.
“Voto non libero, lesione dei diritti”
La mancata libertà di voto, secondo il ricorso, provoca “una lesione” dei diritti degli elettori. La legge sottoposta a referendum – riporta il ricorso al Tar – “ha oggetto e contenuti assai eterogenei, tra di loro non connessi o comunque collegati solo in via generica o indiretta e che riflettono scelte altrettanto distinte, neppure tra loro sempre coerenti“. Ma “la sottoposizione al corpo elettorale dell’intero variegato complesso di modifiche mediante un unico quesito”, “viola in modo grave ed evidente la libertà del voto del singolo elettore”, “arrecando radicale pregiudizio allo stesso principio democratico proprio in occasione dell’esercizio diretto della sovranità popolare al suo livello più alto: cioè nella ridefinizione delle regole del patto costituzionale”.
La legge del 1970 che disciplina i referendum distingue – spiega il ricorso – poi le leggi di revisione della Costituzione dalle altre leggi costituzionali e nel primo caso chiede che vengano indicati gli articoli della Costituzione sottoposti a modifica, nel secondo chiede che nel quesito vengano indicati gli estremi della legge col relativo titolo. Invece “l’atto di convocazione del referendum impugnato tratta la fattispecie come se si trattasse non di una legge di revisione della Costituzione (pur essendo essa diretta a modificare espressamente molte norme della Costituzione), ma di un’altra legge costituzionale, formulando un quesito che rinvia esclusivamente e in toto al titolo della legge”. Titolo che “riflette peraltro e per di più in modo parziale e per molti versi impreciso, i suoi contenuti plurimi ed eterogenei”.
Non solo. Secondo Onida il ricorso “appare illegittimo” anche per aver definito il referendum “confermativo”, una qualifica che non esiste nel diritto costituzionale. “La qualifica di referendum confermativo utilizzata nel decreto impugnato (ancorché venga talora usata nel linguaggio corrente) – sottolinea il ricorso – non trova alcun riscontro nella legge n. 352 del 1970″ che disciplina i referendum “e non riflette la ratio del ricorso al referendum ‘oppositivò nel caso delle leggi costituzionali, ratio che è quella di garantire le minoranze nel caso di approvazione parlamentare della legge con una maggioranza inferiore ai due terzi”. (ANSA).
Lo “spacchettamento”
Il tema dello “spacchettamento” è emerso più volte nel corso degli ultimi mesi. In un primo momento l’iniziativa era stata presa da alcuni parlamentari, ma la raccolta firme per proporre la divisione del quesito in più mini-quesiti era fallita. Peraltro sul punto era intervenuto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Si è parlato anche di discussioni tra le forze politiche su uno ‘spacchettamento’ della domanda referendaria – aveva detto il capo dello Stato – Va forse chiarito che, a quel riguardo, le forze politiche non avrebbero avuto alcun potere ne’ possibilità di discuterne, così come non ne avrebbe avuto il Capo dello Stato”.
Successivamente erano stati i Radicali a sollevare la questione direttamente di fronte alla Corte di Cassazione, dove avevano depositato anche cinque blocchi di domande: bicameralismo, elezione e composizione del Senato, elezione dei giudici della Corte costituzionale, Titolo V e rapporti Stato-Regioni e infine i referendum. La Suprema Corte, tuttavia, non entrò nel merito dello “spacchettamento” perché come spiegò Mario Staderini, ex segretario dei Radicali, servivano 500mila firme.
L’altro ricorso di M5s e Sinistra Italiana
Contro il quesito è stato proposto nei giorni scorsi anche un ricorso del Movimento Cinque Stelle e di Sinistra Italiana, ma in quel caso interveniva sulla forma del quesito referendario (secondo i due partiti di opposizione è “suggestivo, incompleto e fuorviante”). In questo caso il Tar del Lazio pronuncerà la sentenza a metà ottobre. Peraltro, senza note ufficiali, dal Quirinale trapelò una presa di posizione secondo la quale non solo l’indicazione del quesito segue le disposizioni di legge (quella del 1970 che regola i referendum), ma che il quesito è così perché la legge si intitola così. E quella legge è stata approvata dal Parlamento.
Onida, l’ex giudice costituzionale saggio di Napolitano
Onida, 80 anni, ha insegnato Diritto costituzionale per quasi trent’anni (all’università di Milano) ed è stato giudice costituzionale dal 1996 al 2005. Della Consulta è stato presidente per 4 mesi. È il presidente del comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura. Nella primavera 2013, Onida fu inserito nel gruppo dei “Dieci saggi” formato dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che avrebbe dovuto preparare una relazione e un insieme di iniziative di legge per far partire il percorso di riforma costituzionale che avrebbe dovuto accompagnare il cammino del governo Letta. Peraltro, grazie a uno scherzo della Zanzara di Radio24, Onida disse al telefono che “i saggi sono inutili” e che “servivano solo a coprire questo periodo di stallo”. Vero o non vero, la storia gli ha dato ragione: tutto naufragò, governo compreso, e con il nuovo esecutivo di Matteo Renzi il testo di riforma costituzionale ebbe un’origine “autonoma” rispetto ai “saggi”.
Lo spot tv finisce all’Agcom e all’Antitrust
Nel frattempo di referendum costituzionale si dovranno occupare anche l’Autorità per le comunicazioni e l’Antitrust. Sul banco degli imputati finisce infatti lo spot istituzionale trasmesso in questi giorni sulle reti televisive nazionali, che ha suscitato numerose polemiche e critiche da più parti. Nello spot scorre il testo del quesito referendario, letto dalla voce di uno speaker, che ricorda la data del voto. La contestazione è che la costruzione del messaggio appare come “tendente” al sì. Per tale motivo il Codacons – che non si schiera né per il Si, né per il No, ma per la “correttezza e per la trasparenza in favore dei cittadini e una informazione neutra e consapevole” – ha deciso di coinvolgere gli organi competenti. Agcom e Antitrust appunto.
A sostegno della propria tesi l’associazione cita nell’esposto il Codice di buona condotta sui referendum (fatto proprio dal Consiglio d’Europa e quindi dal governo). “In particolare il Codice prevede il diritto di partiti e soggetti politici di competere in condizioni paritarie e di rispettare il proprio dovere di neutralità: il codice di buona condotta prescrive che le autorità pubbliche non devono influenzare l’esito del voto con una campagna referendaria eccessivamente unilaterale (art. 1.3.1.b)”.