Mr. Pif va a Washington. E a Franklin Delano Roosevelt spiegherà che gli americani, i “private” Ryan con jeep, sigarette e latte in polvere, sbarcati in Sicilia nel ‘43 per “liberare” i siciliani dal fascismo, gli hanno regalato una democrazia che fa rima con mafia. Probabile che il Forrest Gump siculo a sedere su una panchina davanti alla Casa Bianca, niente cioccolatini ma una lettera tra le mani del vero capitano Scotten che denunciò il “misfatto” internazionale con cui verrà infettata l’isola, non potrà mai conferire parola col presidente. Per questa comunicazione urgente ed etica, è evidente, nasce In guerra per amore, secondo lungometraggio del conduttore tv Pierfrancesco Diliberto. Perché se c’è una spinta propulsiva in questo secondo lungometraggio di Pif, dopo La mafia uccide solo d’estate (2013), è questa impellenza pedagogica nel raccontare con nomi, cognomi e fatti il cancro mafioso che ha pervaso e annichilito la sua Sicilia.
Particolari di storia e cronaca che magari ad un adulto passato da altri set cinematografici “engagé” anni novanta o dal cinema di denuncia anni settanta possono sembrare un po’ risaputi, ma che invece possono diventare, vista la popolarità del personaggio tv Pif, un utile veicolo di sensibilizzazione e volontà di conoscenza sul tema per un fascia più adolescenziale o under 30. Come ne La Mafia uccide solo d’estate il registro prevalente di In guerra per amore è quello comico.
La farsa dell’uomo sbagliato nel posto sbagliato al momento giusto, che prende le mosse a New York nel 1943, dove Arturo, cameriere squattrinato di origini siciliane, ama ricambiato Flora, che però è promessa sposa del nipote di un boss americano. Per poterla sposare il ragazzo cerca allora di ottenere il ‘sì’ del padre dell’amata che abita a Crisafullo, paesino chiaramente immaginario del Sud Est della natia Sicilia. Ma il solo modo di raggiungere l’isola è quello di arruolarsi con i marine di Patton che grazie ad un accordo delle alte sfere governative internazionali con il boss Lucky Luciano, detenuto negli Usa, libereranno l’isola con l’aiuto dei mafiosi, riemersi dalle celle dove molti erano finiti durante il fascismo. Ancora con Michele Astori e Marco Martani allo script, Pif prova a mescolare la giocosità dei siparietti a tratti da avanspettacolo (ottima “spalla” il duo zoppo/cieco Sergio Vespertino/Maurizio Bologna) con il dramma della storia, la favola degli asini che volano e la tragedia con i mafiosi che uccidono a bruciapelo.
Un universo simbolico con intuizioni visive (il selfie ante litteram, le statuine del Duce e della Madonna da teatro dei pupi) suggestive ed efficaci; anche se il tentativo di un racconto a più voci e facce – Pif non è protagonista assoluto con il suo Arturo, doppio dell’omonimo protagonista de La Mafia… assieme all’amata e “doppia” Flora – non si apre con tutta la voluta semplicità in un’omogeneità corale che forse una regia un po’ più d’esperienza avrebbe sintetizzato con maggiore compattezza rispetto alla solita voce fuori campo che cuce ilarità del racconto con l’accigliarsi dei dati di denuncia. Rimane comunque forte il desiderio di far uscire dal cilindro dell’invenzione e della fiaba frammenti di drammatica attualità. La radice storica marcia e nascosta, di quella mafia che uccide d’estate, d’autunno e d’inverno, oggi come ieri, che oltre alla “denuncia” del tenente americano, rivive in un deformato sfregio grottesco alla Petri, nel discorso finale del boss a cui il colonnello dei marines concede la poltrona di sindaco di Crisafullo, e lui impettito declama: “Voi avete bisogno di noi, noi siamo la democrazia”.
“Non conoscevo questa storia, ho iniziato a studiarla circa due anni fa, mentre preparavo uno speciale sui 70 anni della festa della Liberazione”, spiega Pif nelle note di regia del film. “Secondo la vulgata più nota nel 1943 gli americani chiesero il permesso alla mafia per sbarcare sull’isola ma questo non è vero perché la decisione fu presa ad altissimi livelli da Churchill e Roosevelt insieme a Stalin. Dai documenti dei servizi segreti americani risulta evidente che la mafia non è stata considerata come un’organizzazione da tenere alla larga in quanto criminale ma come un interlocutore alla pari. Quello che l’opinione pubblica non sa, o sa molto poco, è che la mafia dal 1943 in poi entra in un equilibrio mondiale che le permette di prosperare perché si pone in chiave anticomunista, nel 1943/45 in Sicilia il PCI è più forte della neonata Democrazia Cristiana e sta per essere realizzata la riforma agraria”. “Probabilmente non andrà tutto liscio come per il mio primo film – conclude il regista – ma storicamente quello che raccontiamo è inattaccabile”.