La visione market-oriented è il grande, inamovibile, stratosferico corrosivo handicap del nostro mondo economico e politico. E lo stiamo pagando a carissimo prezzo. Fondamentale ignoranza gestionale. Cosa gravissima: perché nel frattempo lo scenario è molto cambiato.
Il nostro mondo economico (produttori e consumatori) non si è mai reso conto che, per duecento anni dall’inizio della rivoluzione industriale – al di là delle oscillazioni congiunturali –, la domanda di beni e prodotti ha sempre prevalso sulla offerta di beni e prodotti: di qui una buona e costante forza al prezzo richiesto da chi produce.
Ad un certo punto succede l’imprevisto: la Cina, pur mantenendo la stella rossa ufficiale, passa nel mondo del capitalismo moderno e lo fa con forte velocità al solito sfruttando le condizioni di locale povertà. Quando i costi cinesi saranno cresciuti (venti anni fa l’operaio cinese guadagnava 100 €/mese, oggi siamo sugli 800 €), il nostro capitalismo moderno si girerà e sarà prontissimo a sfruttare altre povertà (ad esempio quelle indiane). Trova prezzi scassatissimi: compra e rivende e ci fa lauti guadagni.
Ma il rapporto domanda/offerta in brevissimo tempo si rovescia: la seconda eccede rispetto alla prima e tanti equilibri consolidati, rapidissimamente, si sfasciano. Agli industriali non-cinesi si aprono tre strade:
a. Puntare sui prodotto/mercati alti di gamma, dove la Cina almeno per un po’ non c’è e non ci sarà;
b. Trovare altre povertà da sfruttare (es.: Albania, Romania, Bulgaria, ecc.ecc.): in altri termini delocalizzando;
c. Tirare il collo al costo del lavoro locale: operazione che richiede di necessità un incremento sensibile della disoccupazione e trucchi vari per fare accettare paghe sempre più basse (precarietà, vouchers, nero,…).
In linea generale, la Germania ha puntato sull’opzione a.; noi preferiamo b. e c..
Il capitalismo moderno non cambia spartito: suona sempre una musica antica: anche se lo scenario è cambiato. E se io fossi in Germania non potrei che plaudire a questa sua scelta: pochi si rendono conto che la Germania ha una domanda interna che vale esattamente la metà del suo Pil, quindi è obbligata (direi più che altro ‘condannata’) a esportare. Oggi la Germania esporta ancora più della stessa Cina. Quindi fa una scelta giusta quando adotta due strategie produttivistiche: la ricerca degli sbocchi di mercato alti di gamma; lo scarico sulle spalle dei Paesi più deboli delle produzioni di subfornitura, quelle più basse di profitti.
Ma noi?
A me sembra che il Piano Italia 4.0 sia una versione moderna, molto depotenziata invero, della vecchia legge 46: cioè sia uno spartito che invita a suonare una musica tipo Germania: ragazzi aggiorniamoci se no perdiamo la competitività. Sì, la cosa non mi trova contrario, anzi, direi che era anche ora… Ma si tratta di una politica industriale da rincorsa, da inseguimento: non è per nulla originale, incisiva, inventata sulle necessità della nostra manifattura.
Ma il nostro punto-nave è diverso: molto diverso. Può un Paese come il nostro, anche se – caso limite – tecnicamente portato all’altezza della Germania, vendere sul mercato-mondo come fanno i tedeschi? Rispondere sì sarebbe una faciloneria spregiudicata, degna di un mondo davvero ignorante.
La struttura del mondo economico mondiale (globalizzazione) oggi si fonda molto di più sulle correnti di import/export che sulla competitività dei prodotti: i grandi business sono generati più da accordi fra Stati (io do una cosa a te e tu dai una cosa a me) che sul rapporto di domanda/offerta fra singoli. Ad esempio se la Germania esporta grandi quantità di Mercedes o BMW in Russia in cambio deve operare importazioni enormi di gas e di materie prime russe pregiate.
Sotto questo profilo, anche se il nostro paese realizza accordi del genere, il nostro potere contrattuale non può neppure lontanamente essere paragonato a quello della Germania. E la nostra stessa struttura industriale (fatta per la gran parte di piccole imprese) può difficilmente essere presa in considerazione come le grandi imprese tedesche. Le cosiddette piccole e medie imprese italiane difficilmente riescono ad inserirsi in queste correnti di scambio internazionale.
La nostra forza più vera è fatta di due componenti: una forte (ancora oggi) struttura produttiva manifatturiera e una dimensione nel mercato-mondo ridicola. Siamo una pulce al quadrato in questo mondo di import-export manifatturiero. Ma – e qui i nostri politici non ci capiscono davvero niente – questa è una nostra ‘forza’, che non stiamo affatto utilizzando. La forza del guerrigliero vietcong, non quello dei mega carri armati americani Abrams.
Con il Piano Italia 4.0 la prima componente si rafforza. Ma il nostro vero problema è quello di portare il nostro sistema imprenditoriale e manageriale, specie quello più piccolo, ad avere una visione corretta della domanda internazionale, al fine di cercare di cogliere quegli sbocchi di mercato proporzionati alle nostre reali dimensioni, di basso profilo, coerenti con le nostre caratteristiche storiche di design, di estro, di genialità.
Ma, sotto questo aspetto, il Piano Italia 4.0 mi è sembrato drammaticamente muto.