Per un artista scandaloso che muore, uno scandalo letterario che nasce.
Muore Dario Fo – guitto sommo e vocalissimmo della parola detta e resa grammelot, suono puro che significa – e il Nobel per la Letteratura va a Bob Dylan, menestrello per definizione. Stupore, meraviglia. E, appunto, scandalo!
Soprattutto qua in Italia, terra letterata quant’altre mai, dove la faccenda era stata già paventata con orrore da fior di poeti e, per l’appunto, letterati, qualche anno fa in occasione dei rumors che lo volevano vincitore. Come si fa a dare il Nobel della Letteratura prima a un guitto e poi a un menestrello? Con fior di accademici e poeti lasciati fuori dall’uscio! Già li sento certi mormorii, già li vedo certi ghigni sdegnati…
Io invece ne sono stato felice, felice come si è soltanto quando si viola qualche regola, certi di farla franca: è stata una felicità maleducata, provocatoria, selvaggia, affatto ‘letterata’. Come quella che ho provato quando il Nobel lo diedero a Dario Fo. Ci vuol coraggio a dare un premio tanto paludato e a volte sostanzialmente inutile a due personaggi del genere, che sembrano incarnare l’opposto di quanto tanta cerimonia va affermando.
Il fatto che il Nobel a Dylan sia arrivato nello stesso giorno in cui è morto Dario Fo è certamente casuale, ma altrettanto certamente assume un enorme valore simbolico: come fosse un ideale passaggio di testimone, da un Maestro della parola orale all’altro.
Ma vorrei, per chiarezza, sottolineare alcune faccende, neanche tanto accessorie.
Intanto: non penso che i testi delle canzoni di Dylan siano poesie, né che abbiano il valore e la qualità poetica dei versi, che so, di Szymborska o di Ungaretti. Anzi credo che la maggior parte dei testi di Dylan, senza musica non regga. Non penso affatto che Dylan sia un letterato, né un poeta, né credo che i suoi testi debbano far parte della Storia della letteratura americana. Se tra quelle pagine incontrassero, che so, quelli di Berryman o di Frost, dovrebbero arrossire di vergogna.
Ma credo che Dylan sia, fuor di dubbio, un artista di enorme levatura che con la sua opera ha fatto ben più di quanto la scarna motivazione dell’Accademia svedese gli riconosce.
Ha incarnato per molti di noi la residua possibilità di un’utopia, ha segnato con la sua voce e le sue parole, con le sue canzoni, la storia dell’ultimo quarantennio, dei suoi sogni, delle sue delusioni e delle sue rabbie come pochi altri. E Mr. Zimmerman quel nome de plume, Dylan, lo scelse proprio (oggi direi profeticamente) pensando a un poeta, all’inarrivabile Dylan Thomas e alla sua voce che rimetteva in suono la poesia. Non a caso uno dei primi a tifare per Dylan fu Ginsberg.
Credo, cioè, che i versi di Dylan ficcati a forza e rinchiusi in un canone letterario soffrirebbero, perché sono stati composti per abitare la voce, danzare con la musica, non per farsi inchiostro.
Il Nobel per la Letteratura a Dylan, insomma, ci dice che la letteratura (intesa come arte della lingua scritta, muta) forse sta morendo, ma questa non è necessariamente una cattiva notizia, anzi. È la conferma, in ogni caso, che le arti della parola stanno liberandosi da una tirannia secolare: la letteratura non detiene più il monopolio delle parole, del linguaggio d’arte. Tanto Fo che Dylan hanno fatto arte dando voce alle parole; la loro opera, prima che nei libri che ne conservano gli scritti, era ed è nel loro corpo e nel loro respiro. E questo vale anche, ieri, come oggi e forse domani, per tanti poeti.
Certo per Dylan c’è l’aggravante musicale, il vero tabù di tutta questa faccenda. Si può perdonare un Nobel per la letteratura conferito a un uomo di teatro, è più dura con un musicista. La poesia occidentale tenta da secoli ormai, più o meno dal XVIII secolo, di dimenticare che proprio mescolando le sue parole con la musica essa è nata, tra Troubadours, Trobaritz e Minnesänger, come una vecchia aristocratica che neghi ipocritamente le sue vere origini popolari.
E ormai da tempo certi poeti vedono con angoscia che quello che avrebbe potuto essere il loro pubblico è ‘colonizzato’ da musicisti raffinati, profondi, a volte geniali, mentre i loro libri giacciono invenduti e polverosi sugli scaffali delle librerie.
Il Nobel a Dylan è sale sulla piaga, insomma. Ma è anche un sano ‘memento’: Dante faceva musicare le sue Canzoni da Casella, proviamo a ricordarcene ogni tanto. Le arti della parola e con la parola, insomma, sono tante, tanto simili e tanto distinte tra loro. Solo poche, molto poche tra esse, possono essere definite letteratura e, peraltro, neanche la poesia è tra queste.
Quindi, certo, nel Nobel per la letteratura assegnato a Dylan c’è evidentemente qualcosa di sbagliato, ma il problema non è Dylan, è il Nobel per la Letteratura, che dovrebbe quanto prima trasformarsi in un Nobel per le Arti della parola. Di letterati puri, muti per scelta ed elezione, di sacerdoti del libro ad ogni costo, il futuro non sa che farsene, a quanto pare, e questo – essendo io un poeta e non un letterato – mi rende felice…
Accadrà davvero, prima o poi? Chissà: the answer, my friend, is blowing in the wind…