Gustavo Zagrebelsky continua a manifestare un’inaspettata timidezza che produce frutti acerbi. Un troppo tremulo e ben poco determinato avvocato delle tesi di cui si era assunto l’onere della difesa. Dopo la mediocre figura argomentativa con il bullesco Renzi, ora insiste con la flebile argomentazione contro la sciocchezza, propugnata protervamente da Eugenio Scalfari nella sua domenicale lenzuolata, secondo cui l’oligarchia sarebbe la sola forma di democrazia.
Tesi senile, in cui ritornano giovanilistiche fascinazioni con il braccio teso nel saluto romano, del decano dell’italico giornalismo, a lungo impancato come vestale del pensiero liberal-democratico da Amici del Mondo (Scalfari)? Subalternità dell’ultimo esponente dell’azionismo torinese alle gerarchie del quotidiano che lo ospita (Zagrebelsky)?
Il fatto è che questo dibattito, maturato all’ombra della scadenza referendaria, mostra una preoccupante sottovalutazione della posta in gioco: la democrazia, che solo un pensiero rozzo può ridurre a mero criterio di calcolo (una testa un voto), quando il venerando termine ci parla niente meno che del governo realizzato attraverso pubblico dibattito. Di cui l’oligarchia – nel migliore dei casi tecnocrazia – si presenta esattamente come il suo opposto: un sistema chiuso, quando la democrazia tende alla società aperta. Come ho scritto da qualche parte, l’idea inclusiva di politica pubblica coinvolgente cara a Erasmo da Rotterdam, contrapposta a quella di Niccolò Machiavelli che la riduce a tecnologia del potere.
Con un di più, che il duo Zac-Scal dimostra di ignorare: la democrazia promossa dalle rivoluzioni settecentesche (dei grandi numeri e dei grandi spazi) non subisce necessariamente derive verticistiche che la trasformano nel suo contrario. A meno di non confondere il principio rappresentativo, la grande invenzione del pensiero politico moderno, con la chiusura oligarchica. Al massimo si può dire che la rappresentanza tende a riprodurre élite.
Lo sostenevano Mosca e Pareto ma anche Gobetti e – perfino – Lenin. Il ché non impedisce che tali classi dirigenti siano democratiche, se sottoposte a controllo democratico. Sempre se sussiste la condizione che l’attuale referendum, ossessionato dalla logica oligarchico-tecnocratica del decisionismo, vorrebbe abrogare: il mantenimento in essere di condizioni competitive. Ergo, il conflitto. Primo fra tutti quello tra i tanti senza potere che riequilibrano il potere dei pochi con la forza del numero.
Come avveniva nelle relazioni industriali prima che il lavoro venisse depotenziato abrogandone i diritti; come avveniva nella politica prima che le tendenze corporative riducessero le distinzioni tra destra e sinistra a pura teatralità, prima che la rappresentanza fosse svilita a finzione, azzerando qualsivoglia strumento di partecipazione.
Insomma prima che la democrazia scivolasse nella post-democrazia (in cui il confronto politico si trasforma in competizione tra marchi, privi di effettive valenze contenutistiche e sociali) e – a sua volta – la post-democrazia iniziasse la sua corsa suicida verso la “democratura”: una forma dittatoriale esercitata da ristrette collusioni tra potenti incontrollati/incontrollabili (la plutocrazia alleata con leader bonapartisti) all’interno di un guscio fatto di riti democratici puramente formali.
È chiaro che questi fenomeni vanno ben oltre i maneggi di un ragazzotto di Rignano: sono i segni inquietanti di un’epoca di grande smarrimento, in cui la violenza del privilegio tende a farla da padrone. Magari suscitando consenso in algidi novantenni che ormai stentano a contenere i tratti autoritari del proprio pensiero.
Preoccupa che troppo spesso l’opposizione a questo precipitare nel gorgo di antichi gironi infernali trovi opposizioni tanto tiepide. Specie considerando che il contrasto della restaurazione controriformista renziana costituirebbe un valido dente d’arresto per il passetto che vorrebbero farci compiere verso quei malfamati gironi.