Presentato all'Università Cattolica di Milano un progetto sul "Corporate crime" e su chi subisce danni per contaminazione dell’ambiente o per scarsa sicurezza di prodotti alimentari, farmaceutici e medicali. Come nei casi Eternit e Talidomide. Materia che Bruxelles ha regolato nel 2012, con un normativa recepita nel nostro Paese. Con qualche lacuna
Inquinare l’ambiente, distribuire prodotti, cibi, farmaci dannosi per la salute. Ecco alcuni esempi di ‘corporate crime‘, reati commessi da società, grandi e piccole durante la loro attività produttiva, commerciale o finanziaria. Illeciti che ogni hanno nel mondo mietono più vittime di quanto non si pensi. Solo nel 2004, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, per malattie legate all’esposizione di amianto (lavorativa, ma non solo) sono morte 107mila persone (un milione e 523 anni persi in termini di aspettativa di vita). In Italia tra i casi più noti ci sono quello culminato nel processo Eternit, ma anche la vicenda giudiziaria che ha coinvolto la Olivetti. Sono poi legati all’inquinamento da polveri sottili i 3 milioni e 700mila morti all’anno dovuti a malattie oncologiche, cardiocircolatorie o dell’apparato respiratorio. Un fenomeno che comporta ricadute anche a livello sociale ed economico.
La direttiva europea 2012/29 istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (di tutti i reati) ed è stata recepita dall’Italia con il decreto legislativo 212 del 15 dicembre 2015. Eppure il nostro Paese è un passo indietro rispetto ad altre realtà europee dove esiste un livello di assistenza per le vittime molto più articolato. Proprio alla sfida dell’applicazione in Italia della direttiva, in particolare per le vittime di corporate violence, cerca di dare una risposta il progetto di ricerca, finanziato dalla Commissione europea, portato avanti dal Centro Studi ‘Federico Stella’ sulla giustizia penale e la politica criminale dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con altri istituti europei. Il progetto, già in corso d’opera, intitolato ‘Victims and Corporations, implementation of directive 2012/29/UE for victims of corporate crimes and corporate violence’ è stato presentato nell’ambito del convegno internazionale sull’argomento, in corso all’Università Cattolica oggi e domani, 14 ottobre.
INQUINAMENTO ILLECITO? FA PIU’ MORTI DEL TERRORISMO. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente, le emissioni industriali sono costate ai Paesi dell’Unione, nel solo 2012, tra i 59 e i 189 miliardi di euro, tra ricadute economiche dovute a morti premature, giornate di lavoro perse per malattia, aumento della spesa sanitaria e danni all’agricoltura, agli immobili e all’ambiente. Anche se appena un decimo di questi decessi e malattie fosse riconducibile effettivamente a comportamenti illeciti delle imprese produttrici, verrebbe comunque superato di oltre dieci volte il numero delle vittime di attacchi terroristici ogni anno nel mondo, 32.685 nel 2014, secondo l’ultimo Global Terrorism Index. “Chi è vittima di questi reati – ha spiegato Gabrio Forti, preside della facoltà di Giurisprudenza e direttore del Centro Studi ‘Federico Stella’ – spesso non si accorge di esserlo per i lunghi periodi di latenza delle malattie contratte, la difficoltà di ricostruirne le cause e l’enorme divario tra mezzi e conoscenze a disposizione delle potenti organizzazioni che li perpetrano e quelli delle vittime, anche se riunite in associazioni”.
LA DIRETTIVA EUROPEA E LA SITUAZIONE IN ITALIA. La direttiva 2012/29/Ue è stata recepita in Italia (sia pure solo parzialmente e con qualche ritardo) con il decreto legislativo 212 del 15 dicembre 2015. Eppure rispetto a Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania l’Italia è indietro. “Manca l’assistenza alle vittime – ha spiegato la giurista Claudia Mazzuccato – mentre in altri Paesi, al momento della denuncia scatta immediatamente un sistema di assistenza psicologica”. Qualcosa, però, si sta muovendo. Alcune Procure della Repubblica, come quella di Torino, offrono assistenza sociale alle vittime e anche i Tribunali si stanno attrezzando con sale di attesa e accompagnamento per queste persone.
DALLA CASA IN UN SITO INQUINATO AL FARMACO DANNOSO. Il progetto del centro studi ‘Federico Stella’ si occupa nello specifico delle vittime di reati che riguardano l’ambiente, la sicurezza di prodotti alimentari, farmaceutici e medicali. L’obiettivo è anche quello di sensibilizzare tutte le categorie professionali coinvolte nel contatto con le vittime: forze dell’ordine, magistrati, avvocati, operatori dei servizi sociali, uffici legali delle imprese e associazioni di consumatori o di vittime. La ricerca si articola in uno studio teorico e casistico e in uno qualitativo, attualmente in corso, di confronto diretto attraverso interviste e focus group. Avrà durata biennale e si concluderà a dicembre 2017.
Ma che cosa sta mettendo in luce il progetto? “Che queste persone non solo devono fare i conti con uno svantaggio economico e conoscitivo nei confronti degli autori del reato, ma assai spesso, rischiano la cosiddetta vittimizzazione ripetuta” ha sottolineato la giurista Claudia Mazzucato. Qualche esempio? “Basti pensare a tutti coloro che si vedono costretti, per mantenere il posto di lavoro, a continuare a lavorare in un ambiente in cui vengono violate elementari regole di sicurezza o all’impossibilità, per la maggior parte delle persone, di abbandonare la propria casa, anche se si trova in un ambiente inquinato”. Vittime vulnerabili sono quei malati cronici che non potevano fare a meno di un farmaco, poi rivelatosi non sicuro, come nel caso della contaminazione di prodotti emoderivati dovuta a pratiche incaute e illegali nell’acquisto, la lavorazione e la commercializzazione del plasma umano, o anche quei bambini affetti da gravissime malformazioni perché le loro madri avevano assunto il Talidomide contro la nausea in gravidanza.
“Dal progetto – spiega la giurista – emerge che i bisogni di queste persone vengono prima della giustizia penale, le priorità sono l’assistenza sanitaria e il riconoscimento della malattia professionale. Spesso è più importante che l’azienda non ripeta una condotta dannosa, piuttosto che paghi, queste persone hanno bisogno di un’ammissione di responsabilità e di sapere che quello che è accaduto a loro non accadrà più”.