Il buffo dibattito sul Nobel a Bob Dylan – a mio modo di vedere – sembra lo scontro tra finti spregiudicati e veri parrucconi, tra chi persegue l’épater le bourgeois come affermazione giovanilistica e chi presidia la nostalgia di gerarchie fasulle.

Visto che non ero giovanilista neppure da giovane e – al tempo stesso – apprezzo del passato solo il fatto che è passato, vorrei dire la mia fuori da coro e contro-coro.

Nonostante abbia trovato gradevoli alcune composizioni del neo-Nobel (ma, per restare negli States, a me piaceva Ray Charles e la sua voce cartavetrata), il riconoscimento dell’Accademia svedese induce al sottoscritto un retro-pensiero estremamente sgradevole: l’ennesimo atto di sottomissione all’egemonia dell’industria discografica anglo-americana.

Eppure (almeno in qualcuno, di grazia) dovrebbe suscitare preoccupazione il dato evidente per cui il suono globale ormai viene canalizzato dal sistema che filtra qualsivoglia altra proposta non in lingua inglese; destinata a subire un inevitabile processo di marginalizzazione. Un imperialismo musicale con evidenti effetti di impoverimento, a fronte della sacralizzazione dei performers promossi dal mass-marketing come geni compresi. Solo perché entrati nel canale mediatico dominante.

Per cui i carini ma un po’ plastificati Beatles diventano icone del secolo, i finti ribelli furbastri Rolling Stones continuano da incartapecoriti a impersonare (con annesso catetere?) una ribellione senza oggetto. Per proseguire con il martirologio di eroi da stadio che esagerarono in concretissimi quanto scriteriati abusi bulimici, fino a incappare nella più demenziale delle fini. Balordaggini elevate a paradigmi pop. Gratificati da una considerazione del tutto ingiustificabile intrinsecamente, quanto creata artificialmente dai meccanismi del consumo di massa. Valga per tutti la ricostruzione del fenomeno fatta dallo storico Eric Hobsbawm nel suo capolavoro “Il secolo breve”: la scoperta agli inizi degli anni Sessanta delle potenzialità in materia di acquisto del target rappresentato dai giovani lavoratori urbani.

Il tempo in cui i jeans divennero il must dell’abbigliamento e la musica “race”, sino allora confinata in nicchie etniche, venne sbiancata da Elvis in rock (e le vendite di dischi si impennarono: da 277 milioni di dollari del 1955, quando il nuovo sound fece la sua comparsa, ai 2 miliardi nel 1973). Appunto, “per la prima volta nella storia delle favole, Cenerentola divenne la reginetta del ballo proprio perché NON indossava abiti meravigliosi”. Un apparente cataclisma del gusto rigorosamente pilotato dalle centrali affaristiche. Il cui effetto si è tradotto in quella anglo-americanizzazione che ormai manipola buona parte delle scelte che ci sembrano espressione di autonomia.

Intanto – per restare in tema – buona parte delle proposte alternative dovevano subire la mediazione del canale dominante: il geniale e poetico Chico Buarque de Hollanda entra nel giro giusto solo perché un insignificante trombettista Usa (Herb Alpert) inserisce nel suo repertorio la Banda (la composizione più orecchiabile, non la più significativa di Chico), il Gershwin tropicalista Antonio Carlos Jobin, autore della colonna sonora (con Luis Bonfà) dello straordinario film Orfeo Negro, deve essere sdoganato da Frank Sinatra che ne canta gli everygreen.

E non ci sono solo i brasiliani. Chi conosce la musica correntina o quella andina (a parte gli Inti Illimani da feste dell’unità salsicce e piadina) o quella catalana di Manuel Serrat, o quella cabila? Per non parlare della straordinaria stagione degli chansonniers francesi, da Brassens a Barbara, con le loro composizioni che mixavano il popolare con la poesia alta. Da Prevert e Hikmet a Villon. Forse se ne sa qualcosa anche in Italia grazie alla mediazione di Fabrizio de André (ma il più genuino dell’infornata genovese era Luigi Tenco). Fosse per me, il Nobel musicale l’avrei assegnato a suo tempo a Jacques Brel. Qualcuno lo ha sentito nominare?

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