Il giro d’affari è almeno a sei zeri. Dal Salento alla Cina, via Grecia, le oloturie hanno alimentato una filiera in grado di fruttare più di 80 milioni di euro in pochi mesi. Sono stime al ribasso, legate ad una ricostruzione dei traffici, ad oggi, ancora estremamente parziale. Eppure sono le prime, incredibili, cifre che è già in grado di consegnare l’inchiesta avviata dalla Procura di Lecce sul commercio dei cetrioli di mare, dalla bassa Puglia all’estremo Oriente. Le indagini, affidate dal pm Elsa Valeria Mignone alla Guardia di Finanza, hanno iniziato a muovere i primi passi durante l’estate e hanno posto un primo punto fermo: solo una tra le aziende locali attive nella commercializzazione di prodotti ittici ha esportato quantitativi pari a 140 tonnellate. Ed è soltanto l’inizio. Dopo le denunce degli attivisti tarantini e i primi sequestri tra Manduria e Brindisi, ora la Puglia prova a correre ai ripari: nella seduta del Consiglio regionale di oggi, il primo punto all’ordine del giorno è la discussione sulla proposta di legge che vieta la pesca e la vendita della specie. “Per le oloturie dovrebbe vigere il principio di precauzione, visto che non sappiamo quali impatti possa avere sull’ecosistema marino un prelievo così massiccio”, dice Ferdinando Boero, docente di Zoologia e Biologia marina dell’Università del Salento.
L’inchiesta: Gallipoli “capitale” dei traffici
L’ipotesi di reato formulata dalla Procura di Lecce, al momento a carico di ignoti, è tra le nuove fattispecie introdotte nel codice penale nel 2015: art. 452 bis, “compromissione significativa di un ecosistema e della biodiversità”, declinazione dell’inquinamento ambientale. Il perché è chiaro: le oloturie non sono specie di per sé protetta, ma la loro razzia avrebbe depredato i fondali dell’arco ionico, da Gallipoli su fino a Taranto, danneggiandoli seriamente. A dare il via alle indagini è stato, a luglio, il fermo di un camion con targa bulgara. All’interno, 5mila chili di cozze e molluschi vari, non tracciabili. Le irregolarità nella documentazione presentata dall’autista greco sono state il bandolo di una matassa molto più aggrovigliata. Alle Fiamme Gialle è stato dato il compito di battere palmo a palmo tutte le aziende di commercializzazione di prodotti ittici del Gallipolino. Dall’analisi dei registri di vendita, dai sopralluoghi e dalle ispezioni, sta emergendo il ruolo che le imprese del posto hanno avuto in questa partita. Quasi un oligopolio, secondo gli inquirenti, e rapporti diretti con gli importatori ellenici, snodo fondamentale della catena prima dell’arrivo sui mercati asiatici. Gli approfondimenti sono complicati e sono stati resi ancora più difficili dai sequestri che, tra l’autunno 2015 e la primavera scorsa, hanno messo sotto chiave alcune decine di tonnellate di prodotto, nelle province vicine di Brindisi e Taranto. Da allora, infatti, per camuffare le vendite, sui registri aziendali la generica parola “esca” ha iniziato a sostituire quella specifica di “oloturia”.
Il mercato dei colossi
Quando nel 1896 Emilio Salgari scrisse “I pescatori di Trepang”, probabilmente mai avrebbe immaginato che i fondali del Pacifico si sarebbero così impoveriti di oloturie da spingere gli asiatici a cercarle nel Mediterraneo. I cetrioli di mare, infatti, sono alla base di una delle prelibatezze orientali, il “trepang”, appunto. Disseccati e a volte affumicati, sono ingredienti imprescindibili per piatti raffinati. Sono anche molto richiesti dalla nuova industria cosmetica. Utilizzi plurimi, dunque, qui finora completamente ignorati. In Italia, al massimo sono stati usati come esca e nulla più. Ora, però, hanno un valore. È la globalizzazione, bellezza. E c’è chi ci guadagna, eccome: stando a quanto ricostruito dalla Guardia di Finanza di Taranto, le oloturie vengono pagate ai pescatori 80 centesimi al chilo; agli addetti alla pulizia tra i 30 e i 50 euro al giorno; 7 euro al chilo agli intermediari, quasi sempre greci; piazzate tra i 200 e i 600 dollari al chilo, in base alle specie, sul mercato asiatico finale.
L’esperto: “conseguenze indecifrabili, viga il principio di precauzione”
Ferdinando Boero è stato tra chi più si è esposto in Italia per la tutela dei datteri di mare: “Non ci sono ricerche specifiche su questa specie – spiega – perché studi di questo tipo sono sempre poco finanziati e spesso ritenuti di nessuna importanza. Tuttavia, possiamo ipotizzare che le oloturie svolgano le stesse funzioni assolte a terra dai lombrichi: scavano nel sedimento, digeriscono gli organismi che vi sono dentro ed espellono quanto fagocitato. Ciò smuove i sedimenti marini, permette all’ossigeno di penetrare dentro”. Le oloturie sono, dunque, garanti dell’ecosistema. È per questo che, in assenza di una legge ad hoc, la loro tutela può derivare in maniera indiretta dalla Direttiva quadro Ue sulla strategia marina: “Il primo descrittore di buono stato ambientale – aggiunge Boero – dice che la biodiversità dev’essere mantenuta; il terzo che le popolazioni di specie commerciali, qual è diventata l’oloturia, devono essere in buono stato; il sesto che l’integrità del fondo marino deve assicurare il funzionamento degli ecosistemi”. Vincoli, però, facili da ignorare: l’ammontare delle multe comminate, al momento, oscilla tra i mille e i 3mila euro. Bazzecole di fronte al grande affare.