Nella mia personale collezione di esseri umani i poeti occupano uno spazio speciale per il mio amore incessante verso la poesia. Chi mi segue sa che ho fatto i ritratti ad Alda Merini, Silvano Agosti, Beatrice Niccolai, Beppe Costa, Stefano Raimondi, e Nicolino Pompa. Con Gabriele Contini inauguro una rubrica dedicata ai poeti che vivono a Milano (chi si sente poeta e vuole un mio ritratto può scrivermi senza problemi, sono totalmente gratuiti).
Ho conosciuto Gabriele in un famoso locale di Milano che si chiama Le Trottoir, patria dello scrittore Andrea G. Pinketts. Di Gabriele mi ha subito colpito la sua voce, il modo che ha di modulare la parola, come se le parole fossero vomitate dalla sua interiorità tormentata. E delle persone in generale mi colpisce il senso di solitudine che si portano addosso.
Penso che la solitudine sia veramente il brodo primordiale della condizione umana. Non è un brodo di carne, e nemmeno vegetale, è un brodo cosmico. Non si scappa dalla solitudine, è uno specchio incarnito, possiamo distrarla con acrobazie, con giochi di società, con tutto quello che ci viene in mente, anche con l’amore, ma la solitudine ci tiene sempre le mani sulla gola. Non molla la presa. E soffocare non è sempre un male, soprattutto se il risultato finale è l’incontro con la nostra parte più intima.
E Gabriele trasuda intimità, per questo mi piace. Non ho difficoltà ad ammettere di essere un disturbato mentale, nel senso che la mia mente mi disturba con le sue ansie, i suoi interrogativi, le sue pulsioni allotropiche.
In questo senso anche Gabriele vive la mente come un disturbo, e questo è sempre segno di una mente viva, vitale, incandescente. Non mi fido mai delle persone eccessivamente serene. Preferisco l’inquietudine. Anche per questo Gabriele mi piace, vive la disperazione fino in fondo, quasi gioca con le densità mortali della sua anima. E ci vuole una buona dose di coraggio. E poi mi piace il suo “sorriso bambino”, tra tanti tormenti reali e immaginari persiste la purezza della sua infanzia.