Nelle questioni legate al cambiamento climatico la donna dovrebbe essere uno dei punti di riferimento per ogni discorso, a causa della sua importanza nella società e della sua maggiore vulnerabilità. Nel dibattito internazionale, al contrario, la rappresentanza femminile non è proporzionata ai rischi cui le donne sono esposte in caso di disastri ambientali. Nel contesto dell’imminente COP22 di Marrakech, è importante presentare il lavoro di quante, diplomatiche o attiviste locali, si stanno distinguendo nel campo della giustizia climatica.

di Chiara Soletti

Hindou Oumarou Ibrahim ha 32 anni e fa parte del popolo Mbororo, una comunità pastorale nomade di circa 250.000 persone che vivono nella zona del Sahel. È la coordinatrice dell’Associazione delle Donne e Popolazioni Indigene del Chad (AFPAT) ed è stata scelta come rappresentante della società civile alla cerimonia d’apertura per la firma dell’Accordo di Parigi, il primo trattato globale sul contrasto al cambiamento climatico, siglato nel 2015 in occasione della COP 21. Nel suo discorso ai leader mondiali presenti all’evento ha ricordato l’effetto che questo fenomeno ha sulle comunità indigene come quella a cui lei stessa appartiene. Gli Mbororo, per il loro sostentamento, dipendono infatti dall’ecosistema del lago Ciad, bacino idrico che sta scomparendo, prospettando per i membri di questa comunità un futuro da migranti climatici.

Ibrahim ha una formazione incentrata sui diritti delle popolazioni indigene e sulla protezione ambientale. Ha dedicato la propria vita alla salvaguardia del popolo Mbororo e della sua terra, affermandosi negli anni come una delle maggiori esperte di mitigazione e adattamento climatico. Una parte significativa di questo impegno è focalizzata sull’importanza della conoscenza tradizionale delle popolazioni indigene. Il profondo legame che queste comunità hanno con il territorio è una risorsa che non può essere esclusa dalla ricerca scientifica per la protezione ambientale.

“Il sapere tradizionale e la scienza del clima sono entrambi di fondamentale importanza per costruire la resilienza delle comunità rurali ai cambiamenti climatici”. Su queste premessa nel 2012 Ibrahim ha collaborato allo sviluppo un progetto di mappatura tridimensionale partecipativa per la gestione delle risorse ambientali del Ciad; ‘partecipativa’ nel senso che il processo consultivo ha coinvolto le popolazioni indigene della regione, integrando per la prima volta la loro conoscenza tradizionale nel programma di adattamento ambientale del governo. Il progetto è stato anche l’occasione per coinvolgere le donne di queste comunità mettendo in risalto il loro ruolo nella protezione delle risorse ambientali. Responsabili del rifornimento alimentare per le loro famiglie, le donne detengono gran parte della conoscenza su come adattarsi alle situazioni di emergenza, per esempio dove trovare l’acqua durante le siccità e come conservarla. “Questo progetto aiuta a evidenziare le voci e le conoscenze delle donne in materia di adattamento e mitigazione del clima” – ha dichiarato Ibrahim – “e contribuisce anche a risolvere i conflitti connessi all’utilizzo delle risorse, come le tensioni che sorgono quando le risorse scompaiono“. È quindi necessario capire come le comunità locali si organizzano e utilizzare la conoscenza che hanno accumulato nel corso delle generazioni per far fronte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Ibrahim ha sottolineato come, nonostante gli ottimi risultati, il programma non garantisca la sopravvivenza degli Mbororo e soprattutto non li protegga dalla deforestazione e dall’espropriazione del territorio in cui vivono. Purtroppo le popolazioni indigene continuano a subire gravi forme di discriminazione. Diritti basilari quali l’autodeterminazione, la proprietà delle terra e l’accesso alle risorse vengono calpestati da un sistema dove le prerogative delle corporazioni prevalgono su quelle delle persone. Hibrahim ha fatto aderire l’Afpat alla Pan African Climate Justice Alliance proprio per combattere questo malcostume e dare voce al suo popolo. Se si vuole che gli Mbororo e le altre popolazioni indigene della terra vengano rispettati, i diritti sanciti nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Popolazioni Indigene devono essere pienamente riconosciuti e la Giustizia Climatica è il paradigma perché questo avvenga.

Il diverso grado di responsabilità delle nazioni nell’innalzamento della temperatura globale e nello sfruttamento delle risorse pone le popolazioni indigene nella condizione di essere creditrici verso un sistema dal quale non solo sono di fatto escluse ma anche danneggiate nelle loro basilari forme di sostentamento. Preservare l’equilibrio dell’ecosistema è una necessità intrinseca di qualsiasi cultura tribale. Anche nelle foreste tropicali alcune comunità utilizzano materiali di origine naturale, a partire dal legno, per la costruzione degli insediamenti, senza però influenzare significativamente l’ambiente che li circonda. Rispettare questi popoli riconoscendo il ruolo della loro cultura nella tutela ambientale del pianeta rappresenta un passo necessario ed ineludibile per costruire un nuovo sistema di vita eticamente sostenibile.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Perù, “circa 10mila rane morte nel lago Titicaca”. Gli ambientalisti: “Colpa dell’inquinamento”

next
Articolo Successivo

Trivelle, lo strano caso di Zibido: per il Tar l’associazione è “troppo povera” per fare ricorso, non per le spese di giustizia

next