Musica

Benji e Fede, esce il nuovo disco degli youtuber col ciuffo. Quando la recensione diventa un monito: evitatelo, se potete

Dopo aver ascoltato il nuovo lavoro dei due la vostra passione per la musica potrebbe sentirsi come chiusa in uno sgabuzzino, vestita di lattice e con una pallina da tennis in bocca. Torturata e umiliata da questo ascolto

Poi uno dice che i giovani d’oggi non sono affidabili. Che non si può contare su di loro, sempre a deludere le aspettative. Per dire, esce il nuovo album di Benji e Fede. Se non sapete chi sono ci sono due possibilità: avete vissuto dentro una campana di vetro o, in assenza di una campana, avete deciso di rimuovere dal vostro cervello la brutta musica che questa coppia di ragazzetti col ciuffo arrivati da Youtube ha già lasciato libera nell’aria, un po’ come quel guru ciccione giapponese che sterminava la gente nelle metropolitane di Tokyo. Come siate riusciti a farlo potrebbe oggi essere informazione libera a chi scrive, perché, qui sta la notizia, chi scrive si è ascoltato il nuovo album di Benji e Fede (Dio santo, chi è chi?) e ora si appresta a recensirlo, canzone per canzone.

Le aspettative, in questo caso, sono quelle che si possono riporre in una coppia di ragazzetti col ciuffo arrivati da Youtube, in Italia, però. Due che hanno sin qui venduto uno sproposito del loro album d’esordio, andando anche a vincere bei premi, fortunatamente senza lasciare traccia dentro il nostro subconscio, dentro la nostra corteccia cerebrale, dentro la nostra vita. Come dire, sono aspettative negative. Ma il bello della musica è che uno prende le proprie aspettative e, nel momento in cui la musica parte, come per magia, si riparte da capo, pronti per un nuovo viaggio.

Prima traccia, Adrenalina. La canzone è ritmata. Bene, mi dico, magari scorre via più veloce (lo so che il ritmo di una canzone non influisce sulla durata, ma è un po’ come quando si va in vacanza a sud, che la strada sembra in discesa e uno pensa di arrivare prima). Comunque, parte la canzone. Prima frase: “Un’altra notte, un altro gel”. In questo preciso momento afferro una penna e provo a infilarmela sotto un occhio, tentando una lobotomia sicuramente poco professionale ma molto necessaria. La musica sembra fatta con una di quelle app che ci permettono di farci suonerie personalizzate per lo smartphone, solo usata molto peggio che per fare quelle suonerie. I due ragazzetti col ciuffo sanno anche canticchiare, e ci mancherebbe pure altro, cazzo volevano fare, venire pure sotto casa a rigarmi la macchina? Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista.

È la macchina la protagonista della seconda traccia, A casa mia. La musica fa sempre quell’impressione lì. Una batteria elettronica suonata “alla cazzo”. Il testo non riesco a seguirlo bene, sarà che ho ancora una penna infilata sotto un occhio e fa male. So che è una canzoncina che, in un mondo normale, non solo non finirebbe in un album, ma neanche la potresti fischiettare sotto la doccia, pena l’arrivo di The Rock, nudo, a riempirti di mazzate. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista.

La traccia numero 3 si intitola Traccia numero 3. Finalmente un’idea. C’è un feat di Max Pezzali, il che fa ben pensare. Vuoi vedere che… No, niente. Fa cagare anche questa. Cita gli 883, nel testo, riguardo a non ho capito bene che teoria rispetto alla traccia numero 3 dei loro album. Ecco, questa canzone sta a quelle degli 883, come il rutto del tipo che veniva con noi alle medie (spero Max apprezzerà la metafora) che con un rutto sapeva dire Abracadabra sta a un’aria della Lucia di Lammermoor di Donizetti. Sul perché Max abbia fatto questa cosa non voglio interrogarmi. Ancora mi chiedo perché non abbiano mai trasmesso l’ultima puntata di Goldrake, mi basta un mistero assoluto per questa vita (anche questa a Max sarà piaciuta). Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista.

La traccia numero 4 non si intitola La traccia numero 4, e un po’ mi dispiace. Non c’è ospite Max Pezzali, e questo mi dispiace meno. Perché io stimo molto Max Pezzali, e anche questa canzone, che è poi quella che regala il titolo all’album, è una cosa tremenda. Sempre la stessa costruzione banale, melodia scontata, il concetto di armonia, ok, dai scherzavo. Se uno non sapesse che sono canzoni diverse potrebbe pensare a un solo brano lunghissimo. E bruttissimo. Suoni che fanno rimpiangere gli anni 80, ma anche quelli di Baltimora o Dan Harrow. Testi che in confronto le risposte di Ask a base di “locu”, “fisichino” e voti varie sono poesia. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista.

Quinto brano. Dai, siamo quasi verso la metà. Ce la possiamo fare. Parte. C’è una chitarra acustica, probabilmente finta. La canzone si intitola Una foto. No. Non ce la possiamo fare. C’è un ritornello che spingerebbe Agnoletto a invocare il Tribunale dell’Aia. Prima o poi dovremo morire. Speriamo adesso, mi dico. Ma neanche muoio, e arrivo al sesto brano. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista. Parte di nuovo una chitarra. Del resto uno dei due ragazzetti col ciuffo arrivati da Youtube suona la chitarra. Una sorta di brano country. Ma suonato da mio figlio di cinque anni. Mentre dorme. Sotto ci sono dei suonini che dovrebbero dirci che siamo nel 2016. Ma la cosa non ci dona sollievo. Anzi. Ci fa diventare luddisti, di quelli che usano le candele e si scaldano l’acqua in casa col fuoco. Il ritornello che dice “E va bene Baudelaire ma perché non ritorni da me”, spero, costerà qualcosa di paragonabile alla pena comminata a Corona. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista.

Altro brano, è iniziata la discesa. Siamo alla traccia sette su undici. Oh, magari arriva la chicca e gridiamo al miracolo. C’è ospite Annalisa. È una cosa che potrebbe essere un reggaeton, credo. Non so, perché nel mentre ho iniziato a bere detersivo per piatti. Annalisa canta nel ritornello, e nonostante la sua voce, no, la canzone rimane una cosa indegna, con un riff fatto con un fischiettio che, giuro, fossi io quello che l’ha fatto mi caverei i denti da solo, per impedirmi una seconda possibilità. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista. Dai, questa si chiama Troppo forte. Il titolo vorrà pur dire qualcosa. Chitarra sincopata. Parte la voce. Sempre la solita melodietta da jingle delle pubblicità dell’aranciata. Amara. Ritornello che dice “Ti amo troppo forte”. Dopo dice uno perde la voglia di vivere.

Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista. Questa ha un’ospite internazionale. Di grande rilievo. Jasmine Thompson. Mica si scherza. Parte con una vocina tutta pitchata, che mi fa venire in mente i Die Antwoord. Tipo per un decimo di secondo. Perché appena attacca a cantare uno dei due, finisce la magia. E inizia l’incubo. Il ritornello, in cui canta Jasmine, è l’unico momento di livello di questo lavoro. Direi un po’ poco, fin qui. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista.

Titolo della penultima canzone. Quando si rimane da soli. È una ballad pianistica. Senza un minimo di passione. Di anima. Ma anche senza un’idea che si possa definire spendibile, non dico geniale, eh, spendibile. Una robetta da karaoke, dove però ci sono le voci dei due ragazzetti col ciuffo usciti da Youtube. Chi fa chi, vallo a capire. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista.

Ultima canzone. Non è che ci siano tante altre possibilità di trovare del bello qui dentro. Ma in fondo, un po’, ci spero. Si intitola Boomeranghi, suppongo una citazione di Bomba boomeranga di Piero Pelù. Un up-tempo, un po’ alla Faith di George Michael, e voglia Dio che io non passi secoli e secoli all’inferno per questo accostamento. Perché Boomeranghi è una roba che in confronto la riga sulla fiancata della macchina cui si faceva riferimento prima sarebbe una cosa gradevole. L’idea, immagino, fosse di fare una canzoncina estiva. La parola Boomeranghi dovrebbe, immagino, suonare divertente. Ho finito la bottiglia del detersivo per piatti. Non mi viene affatto da ridere. Andrà meglio con la prossima canzone, mi dico. In fondo ho quattro figli, sono costretto a essere ottimista. Ah, no, non ci sono altre canzoni.

Le mie pessime aspettative sono state perfettamente assecondate. Amore Wi-Fi è un crimine verso l’umanità. Al momento la mia passione per la musica è incatenata in uno sgabuzzino, vestita di lattice e con una pallina da tennis in bocca. Torturata e umiliata da questo ascolto. Sarò costretto a sentirmi l’opera omnia di Frank Zappa, ma so che non basterà. Mi ascolterò pure Purpose di Justin Bieber, perché mica tutti i ragazzetti col ciuffo che arrivano da Youtube sono tremendi. Voi che non dovevate ascoltarlo per lavoro tenetevene alla larga. Io vi ho avvisati.