1 Il Soul è pop. In Italia ci aveva appena pensato Graziano Uliani con la creazione del Porretta Soul festival (anno di nascita 1988) a rispolverare le hit della soul music di Memphis, targate Stax, invitando Rufus Thomas in Italia dove probabilmente mai era andato. Poi all’improvviso ecco arrivare The Commitments al cinema. Parker, ma soprattutto Roddy Doyle (l’autore del libro da cui il film è tratto), e ancora di più il music supervisor G. Marq Roswell (Cuore Selvaggio) che con Parker scremò i 24 brani del soundtrack finale e con Peter Bushnell educò il giovane e sconosciuto cast alla ritmica black ’60, ebbero l’involontaria lungimiranza di riaffermare strofe immortali, mescolando storiche etichette USA, di artisti neri come James Carr, Sam Cooke, Joe Tex, Al Green, Don Covay, Ann Peebles. I personaggi del film vengono tutti dalla strada, sporca, grigia e sozza di una Dublino che respira a suon di schiamazzi e urla, con panni stesi nei cortili, bambinetti che scorrazzano in strada e architetture popolari grigio-rossastre (splendida la fotografia pastosa e ruvida di Gale Tattersall). “La nostra musica deve ricordare l’ambiente, le famiglie da cui venite. Deve parlare il linguaggio di strada. Deve parlare di fatica e di sesso. Niente canzoncine smielate del tipo “Tienimi stretta a te tutta la notte”. Capito, deve parlare di corpi, pomiciate cosce, lingue, scopate”, spiega Jimmy il manager ai nove della band, pronto poi a redarguire Dean quando “sviserà” assoli al sax (“il jazz è masturbazione”). Ed è lì tra vagonate di bimbetti sgangherati, proletari e birre, che rinascono i ritornelli semplici e immediati della soul music, sfiorati sì dall’aura spettacolare cinematografica di The Blues Brothers nel 1980, ma poi travolti e cancellati da un decennio di devastanti ritmi funky e disco.