Dicendo al dibattito con la Clinton che non dirà se intende riconoscere l’esito delle elezioni, il miliardario ha lanciato un messaggio allo zoccolo duro del suo elettorato conservatore, sempre più lontano dall'ala moderata. Così una volta uscito di scena "The Donald", le tre anime dello schieramento - la frangia che fa capo a Paul Ryan, la vecchia anima dell'establishment e l'ala più populista e radicale della "Breitbart Wing" si affronteranno per trovare un nuovo leader
“Questo si chiama in un modo solo. Fottersi la serata”. Mark Cohn è un giovane repubblicano che insieme ad altri giovani repubblicani ha deciso di assistere al terzo dibattito presidenziale in un pub nei pressi di Gramercy Park, a New York. Viste le premesse, visto com’erano finiti i due precedenti, non si è fatto molte illusioni. Per la prima mezz’ora, invece, è successo l’inimmaginabile. Donald Trump non ha recitato Donald Trump. Ha risposto diligentemente alle domande. Ha articolato con calma una serie di idee e proposte sui temi che interessano i repubblicani – la Corte Suprema, le armi, l’aborto, l’immigrazione. E’ riuscito, sulla questione dei “confini aperti”, a mettere in serio imbarazzo Hillary Clinton. Con un tono tranquillo, la voce bassa e pastosa, è sembrato, per una volta, “presidenziale”.
Poi è successo. Messo alle strette da Chris Wallace, il moderatore di Fox News che conduceva la serata, Trump è stato categorico: non dirà, per ora, se intende riconoscere l’esito delle elezioni. E’ stato allora che nel gruppo di giovani repubblicani al pub è sceso un silenzio incredulo. E senza staccare gli occhi dalla televisione sopra il bancone, Mark ha detto: “Questo si chiama in un modo solo. Fottersi la serata”. Tutto quello che è successo dopo, non ha più avuto importanza. L’importante è che Trump, ancora una volta, ha scaricato nell’arena una bomba capace di far esplodere polemiche, scatenare la stampa, annientare il normale dibattito politico. Tutto quello, insomma, che un candidato che vuole vincere le elezioni non deve fare.
C’è sconforto e rassegnazione in larghi settori del mondo repubblicano. Gran parte dei sondaggi danno Trump ormai in forte svantaggio rispetto a Hillary Clinton. C’è il senso di un’occasione persa. Mai come quest’anno infatti, di fronte a una candidata debole e per molti versi compromessa, i repubblicani avrebbero potuto avere facile gioco a tornare alla Casa Bianca. C’è anche paura. Trump potrebbe fare qualcosa di più che perdere la Casa Bianca. Potrebbe trascinare alla disfatta diversi candidati repubblicani a Camera e Senato. Proprio il Senato pare ormai destinato a cambiare colore politico e tornare democratico. Preoccupazione anche per la Camera, dove ben 25 seggi potrebbero passare dai repubblicani ai democratici. E del resto a questa tornata elettorale sta succedendo l’inimmaginabile. Persino antiche e solide roccaforti repubblicane come l’Alaska, l’Arizona, lo Utah, potrebbero non essere più un bottino elettorale certo per il G.O.P.
Il vero problema, per i repubblicani, non è del resto nemmeno più Trump. E’ quello che succederà dopo. Rifiutando di dire se riconoscerà il risultato elettorale, Trump ha fatto qualcosa di più che lasciarsi andare, ancora una volta, agli eccessi di un temperamento capriccioso e strabordante. Trump ha piuttosto lanciato un messaggio allo zoccolo duro del suo elettorato conservatore, quello che si è ribellato all’establishment del partito e che l’ha portato sino alla candidatura, quello che crede fermamente che i media USA abbiano un pregiudizio liberal e che quindi le elezioni siano truccate e manipolate. A loro Trump continua a parlare, tanto è vero che lo stesso concetto è stato ripetuto dal candidato repubblicano a un comizio in Ohio, poche ore dopo il dibattito. “Sono pronto ad accettare il risultato delle elezioni – se sono io a vincere!” ha urlato, nell’entusiasmo generale.
Il problema è che questa strategia si è rivelata, con ogni probabilità, suicida. Da un lato ha infatti tagliato fuori gran parte del voto indipendente, necessario a vincere un’elezione presidenziale. Dall’altro ha spaccato in profondità il partito repubblicano, che è sempre stato la somma di anime diverse che nel candidato alla presidenza trovavano un punto di equilibrio temporaneo. Trump ha rotto quell’equilibrio. Nonostante l’appoggio di Reince Priebus e del Republican National Committee, Trump non è mai stato il candidato dei repubblicani. E’ stato il candidato nonostante i repubblicani. Buona parte della leadership lo ha appoggiato a malincuore o non l’ha appoggiato per nulla.
Scontri e polemiche con lo speaker Paul Ryan hanno costellato tutta la campagna, fino alla rottura recente sul video delle molestie sessuali – di fronte alla presa di distanza di Ryan, Trump ha twittato: “Non voglio il suo sostegno. Ha aperto i confini e negoziato un budget cattivo, cattivo”. A Trump sono poi mancati i soldi dei tradizionali grandi finanziatori del partito, tra questi Sheldon Adelson e i fratelli Koch. E i 160 tra senatori e deputati che lo hanno mollato dopo l’uscita del video sono la testimonianza più grande della distanza che separa ormai Trump dal G.O.P.
“Il danno che Trump ha fatto non si estinguerà con l’8 novembre. Non penso che i repubblicani sappiano come sarà il partito post-Trump”, ha detto Charlie Sykes, un conduttore radiofonico conservatore, molto addentro alle cose del partito repubblicano. Il problema infatti non è solo che Trump ha messo il silenziatore alle vecchie anime tradizionali del partito: l’establishment conservatore, la destra religiosa, la vecchia nomenclatura vicino all’esercito e all’apparato militare e industriale, i libertari. Trump ha anche creato un movimento di milioni di persone che pensano che il loro leader sia stato “mollato” dal partito, che provano un risentimento crescente per i propri leader di Washington, che sono pronti a incolpare quegli stessi leader per l’eventuale sconfitta di Trump.
“Sarà una guerra”, ha spiegato Rick Tyler, che nei mesi scorsi ha fatto il portavoce per Ted Cruz. E’ infatti probabile che, passato il ciclone Trump, le forze nel partito si riorganizzino. Una parte del G.O.P. confluirà, con ogni probabilità, sotto la guida di Paul Ryan, che è giovane, carismatico, con un buon controllo della struttura e un’ortodossia liberista che lo fa piacere a buona parte del mondo conservatore. C’è poi la vecchia anima dell’establishment, dai Bush a Mitt Romney a John McCain, sempre meno rappresentativi ma comunque con alle spalle i finanziatori che contano. E infine c’è la cosiddetta “Breitbart wing”, l’ala più populista e radicale che si raccoglie attorno al sito di news e che è rappresentata da Steve Bannon, ex ceo di Breitbart diventato campaign manager di Trump.
Dopo il probabile estinguersi del “ciclone Trump”, queste diverse anime dovranno valutare le rovine lasciate dietro di sé dal tycoon. Dovranno capire come riassorbire le masse del trumpismo arrabbiato. Dovranno trovarsi un leader – “il problema maggiore per il movimento conservatore è la mancanza di un leader che articoli le preoccupazioni del nostro mondo e ispiri la gente”, ha spiegato un ex deputato del G.O.P., Tom Tancredo. Soprattutto, chi si prenderà in carico il partito dovrà ritirare fuori lo studio commissionato nel 2012, subito dopo la sconfitta di Romney, in cui si diceva che i repubblicani, per tornare a vincere, dovevano aprirsi a minoranze, donne, giovani, nuovi elettori (tutte caselle mancanti dal nucleo bianco e maschile dell’elettorato di Trump).
Sono molte le cose che i repubblicani devono fare per ritrovare il loro partito. Per il momento, però, il sentimento di molti militanti resta sospeso tra delusione, stupore, incertezza. Se Trump si è “fottuto la serata”, il G.O.P. deve capire che cosa succederà con l’arrivo dell’alba.