Quando è arrivato sulla mia scrivania il libro di Antonio Manzini, Orfani bianchi (Chiarelettere), ho avuto un piccolo sussulto. Quel titolo ha portato la mia mente verso immagini di dolore e solitudine così acute che per qualche giorno non ho avuto il coraggio di aprire il romanzo, con quella copertina così bella fatta di un cielo blu coperto di stelle.
Della realtà di cui parla il libro – le centinaia di migliaia di bambini dei paesi dell’est lasciati a parenti o istituti dopo che le loro madri erano partite per fare le badanti – ero venuta a conoscenza da tempo, tramite reportage su quotidiani e riviste, che ogni tanto si soffermano sull’esistenza di questa dimensione lacerante, con un corredo di foto intense che si fa fatica a guardare: bambini in vecchi ruderi, accanto a una donna anziana, quasi sempre sola, in campagne grigie e desolate.
Mi era capitato anche di vedere un documentario che non potrò mai scordare, andato in onda sulla Rai, Figli sospesi (un esempio raro di televisione d’eccellenza). La telecamera si fermava sulle madri – in questo caso rumene – emigrate in Italia per cercare lavoro e mandare soldi alla famiglia – poi “partiva” e passava per un momento nella frenetica e caotica Bucarest, infine si inoltrava nell’entroterra. Anche qui, le immagini erano quelle di bambini piccoli e piccolissimi abbandonati a qualche parente, generalmente indigenti, o di stanze fatiscenti di adolescenti rimasti soli, ragazzi e ragazzi dagli occhi vuoti, che un tempo erano poveri ma almeno ricchi di un legame essenziale, e ora sono un poco meno poveri ma hanno perso tutto: la voce, il corpo, l’abbraccio di una madre. Sono gli “orfani bianchi”, appunto, figli di donne rumene, moldave, ucraine costrette a partire dalla disoccupazione dilagante e dall’assenza, quasi sempre, degli uomini, spesso violenti, spesso semplicemente fuggiti.
Purtroppo i paesi di origine di queste madri sono indifferenti a un fenomeno che è diventato un’emergenza sociale, una tragedia collettiva, fatta anche di un aumento esponenziale di suicidi tra questi ragazzi, un gesto disperato dettato dalla convinzione, dicono gli psicologi, che almeno così la madre potrà rientrare a casa. Non potrò scordare, da questo punto di vista, il tumolo di terra appena fuori dal cimitero inquadrato dalla telecamera nel documentario Figli sospesi: un adolescente che ha ceduto al dolore, e non ha avuto neanche possibilità di essere seppellito dentro il cimitero, perché suicida, dunque colpevole.
Sapevo che avrei trovato tutto questo nel romanzo di Manzini, e che lo avrei trovato sotto forma narrativa, quindi ancor più straziante, un racconto dall’interno della vita di queste madri che noi incontriamo inconsapevolmente ogni giorno sull’autobus, al supermercato, alla posta. La protagonista, Mirta, è una donna moldava, e fa la badante. Il libro è punteggiato dalle sua e-mail piene di vita e di amore che manda al figlio Ilie: come tutte le madri, anche Mirta è concentrata sui bisogni di suo figlio, e gli descrive tutto ciò che gli arriverà nel prossimo pacco, insieme ai soldi (“Ti ho mandato due paia di scarponcini figlio mio. E hai il piumino. I guanti e il cappello”). La sua vita ha un solo scopo: mandare i soldi al figlio e alla madre, e provare a tutti i costi a ritornare a vivere con loro. Se non in Moldavia, in Italia, qualcosa di forse impossibile (“una stanza costa cinquecento euro, è tutto caro come l’oro, quaggiù”), ma che bisogna continuare a immaginare come raggiungibile prima o poi per non impazzire.
E dire che alla fame di case di queste donne si contrappongono gli enormi appartamenti vuoti delle anziane che si trovano ad accudire. Donne spesso di famiglie ricche, brutali e scortesi, comunque infelici, ignare del dramma delle altre donne che le lavano, le girano ogni due ore per evitare il decubito, le imboccano e le puliscono, compiendo ogni giorno riti di una fatica infinita, finendo per soffrire di depressione e insonnia. Eppure l’alternativa a fare la badante è persino peggiore. È quella in cui si trova a un certo punto Mirta, costretta in uno squallido appartamento a dividere un letto con altre donne provate, e alzarsi all’alba per andare a pulire i condomini, le mani gonfie per l’umido e rovinate dai detersivi. Ma qualunque sforzo è possibile pensando a un figlio lontano, anche se la sorte può essere ancora più maligna e farlo finire, come capita a Ilie, in una specie di orfanotrofio, quando la nonna muore in un incidente dovuto alla povertà.
Mirta resta a Roma, città ingrata e avara verso i suoi cittadini e ancor più verso gli stranieri, suo figlio in un grigio casermone migliaia di chilometri lontano, mentre la comunicazione si fa sempre più difficile, impervia e l’ansia – che il figlio stia male, che non vada a scuola, che possa togliersi la vita – sale ogni giorno di più.
Mirta è il simbolo di tutte le madri dell’Europa dell’Est che vengono a cambiare i nostri anziani, spesso rimasti senza più speranza né pietà. Di queste donne, e dei loro drammi privati, non si occupa nessuno, né lo stato di partenza, né quello di arrivo: in Italia solo una donna, Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione donne romene in Italia, sta portando avanti un progetto per consentire a madri e figli di connettersi via Skype. Una piccola goccia nel nulla. Ma intanto vedere il mondo con gli occhi di una di loro, attraverso, appunto, il libro di Manzini, è già tantissimo, un primo passo verso il cambiamento. E il romanzo è come una cesura: dopo averlo letto non possiamo più dichiararci inconsapevoli. Dopo, non possiamo più dire “io non sapevo”.