Il teatro porta lontano. “Vie” sono le strade per le partenze e i ritorni, per le scoperte, i nuovi panorami e orizzonti. Ultimo Festival ‘Vie’, dislocato tra Modena, Bologna, Carpi e Vignola, per Pietro Valenti che lascerà il posto, dopo ventidue anni di regno, a Claudio Longhi.
Nell’ultima giornata abbiamo intrapreso un percorso teatrale che ci ha portato dal Belgio, ma il nome della compagnia ci conduce in Germania, alla Bielorussia fino a giungere alla Lituania. Vie permette di mordere il mondo, assaggiarne i gusti.
Il Perhaps all the dragons è un’immersione che a poco a poco, ci entra addosso, come un’iniezione intramuscolare. Dentro una chiesa è stata costruita una struttura ellittica in legno dove entriamo come buoi spauriti. Trenta spettatori a replica. Ognuno siede davanti a uno schermo. Una persona si racconta. Storie vere o inventate non lo sapremo mai. Basta crederci. L’interazione tra lo spettatore e il video è pari a zero ma, fatto raro ed estraniante, l’interazione tra i vari soggetti dentro i televisori è altissima: tra di loro ci sono richiami e rimandi, parole e sguardi, gesti d’intesa.
Il pubblico può soltanto stare ad ascoltare e, in un’ora, cambiare cinque postazioni seguendo la traccia individuale collegata alla nostra seduta. Ognuno avrà un suo percorso. Come nella vita. E quando il nostro dirimpettaio di pixel, dopo averci raccontato la sua esperienza o una parte significativa della sua biografia, ci dice che è arrivato il momento di alzarci da quel posto a sedere, da quella casella, ci ritroviamo tutti contemporaneamente e come pecore nell’ovile, scalpitanti ed esitanti, cerchiamo il numero successivo dove sederci.
Il tema di fondo è la teoria dei sei gradi di separazione che ci dice che tra una persona e un’altra della Terra, scelte casualmente, ci sono al massimo sei passaggi di persone per poterle unire, far conoscere e potenzialmente incontrare. Il mondo è piccolo, tutto è raggiungibile. Quello che emerge maggiormente fa proprio riferimento al titolo ripreso da Rilke che, tradotto, recita così: “Forse tutti i draghi della nostra vita sono solo principesse che aspettano di vederci recitare, solo una volta, con bellezza e coraggio”. Il trovarsi davanti a tanta umanità, a tanta diversità, a tanto dolore, altrui e nostro.
A me sono capitati: un professore svedese che aveva un amico il quale, dopo un’operazione al cervello non andata a buon fine, si ricordava soltanto gli ultimi trenta secondi di vita, e quindi viveva solo e soltanto nel presente; un pediatra ebreo israeliano che di giorno salvava bambini e di notte faceva l’elicotterista lanciando missili sulle postazioni palestinesi; un torero spagnolo nano; un professore olandese che ci parla della leggenda dei chicchi e della scacchiera; una ragazza giapponese che da sette anni, ha deciso di non uscire più dalla sua stanza: una hikikomori. Ci stanno dicendo che siamo tutti diversi, quindi per questo tutti uguali e allo stesso tempo unici e speciali, ci stanno dicendo di ascoltare gli altri e di farci ascoltare.
I Belarus Free Theatre arrivano dalla Bielorussia, anche se adesso, dopo minacce, persecuzioni e carcere, si sono autoesiliati. Il loro teatro è fatto di torture e violenza, quello che portano in scena è altamente biografico, anche quando trattano Shakespeare o Pinter. Tra i protagonisti di questo Burning doors c’è anche una delle componenti delle Pussy Riot, performer russe condannate ad anni di galera per aver protestato contro Putin. Ma il loro teatro si è appiattito sulla denuncia senza un ulteriore scatto, rimanendo così ancorato al loro passato, certo ingombrante e tragico, un teatro visivo e diretto, anche prevedibile, che colpisce sempre meno e che nel tempo si è standardizzato su una forma precisa, un cliché riconoscibile.
Non so qual è il miglior testo per iniziare la carriera d’attore ma il migliore per chiuderla è L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett che racchiude tutta l’impotenza, la disperazione, l’insensatezza del vivere. Purtroppo Beckett, con le sue note di regia rigide e i suoi eredi ferrei, non permettono regie libere, quindi le messinscene (questa di Korsunovas con Juorzas Budraitis) del Krapp si somigliano un po’ tutte, come impostazione e scena. Si può poco sperimentare e muoversi tra le righe. Nel tempo abbiamo visto le interpretazioni di Franco Branciaroli e Glauco Mauri, Carlo Cecchi, Giancarlo Cauteruccio o Giancarlo Ilari. Ci siamo persi quelle di Bob Wilson e quella di Harold Pinter. Come sarebbe stata la versione di Carmelo Bene?