L’arresto di Giampiero De Michelis, detto “il Mostro”, e di Domenico Gallo, vulgo “il Diavolo”, rispettivamente il direttore dei lavori e il costruttore in odore di ‘ndrangheta finiti (con un bel po’ di degni compari) nel mirino della magistratura impegnata nell’indagine “infrastrutture-gate”, fa emergere l’ennesimo sistema criminoso cresciuto attorno agli appalti. Nel caso, le commesse del Tav Milano-Genova, del sesto macro lotto autostradale Salerno-Reggio e del People mover di Pisa.
Al tempo stesso trascina scie venefiche che investono un’area non trascurabile della tecnostruttura amministrativa nazionale, ancora una volta. Ossia il ruolo di alti funzionari preposti ad assicurare la regolarità operativa in grandi opere, lautamente finanziate dal pubblico denaro, che risultano in grave combutta con i soggetti che avrebbero dovuto tenere sotto controllo. Un aspetto indispensabile per capire il diffondersi della corruzione ambientale e il perché in Italia qualunque investimento infrastrutturale costi dalle tre alle quattro volte in più di quanto si spende negli altri Paesi europei. E fortuna che esiste ancora una branca dello Stato – la magistratura – impegnata a fare il proprio dovere, bloccando e smascherando tali collusioni tendenti al criminoso (in larga misura rivelate da quello strumento investigativo prezioso, per non dire irrinunciabile, rappresentato dalle intercettazioni; che molti, in un ceto politico dalla coda di paglia, vorrebbero disarmare).
A parte il dubbio permanente su quanta parte dell’illegalità affaristica permanga nell’ombra, per cui è ragionevole supporre che quella emersa costituisca soltanto la punta dell’iceberg, va comunque sottolineato come la bonifica attuata a mezzo giudici e forze di polizia operi necessariamente a consuntivo. A danno compiuto, in molti casi irreparabilmente.
Ben altro sarebbe il meccanismo messo a punto dalla cultura amministrativa moderna, in una logica opportunamente preventiva. E che – come i fatti stanno a dimostrare – non risulta adeguatamente interiorizzata dalle parti del (fu) Bel Paese; in cui una burocrazia ossessionata dagli adempimento formali quanto indifferente al problem solving, il raggiungimento dei risultati, costituisce il peggiore bagno di coltura immaginabile.
Venendo al dunque, la corretta fisiologia di tale agire presuppone un rapporto dialettico tra soggetto politico, chiamato a traguardare e controllare (nonché a erogare premi e punizioni a operazione compiuta), e tecnostruttura, responsabile dell’esecuzione. Un combinato disposto che postula nel primo attore – la politica – il necessario livello di competenza richiesto dalla valutazione; nel secondo – l’alta struttura funzionariale – conoscenza implementativa dell’obiettivo ricevuto e lealtà/fedeltà nei confronti delle istituzioni di riferimento.
Sulla carta un combinato disposto perfetto. Destinato nella pratica a incepparsi quando i rappresentanti elettivi dell’interesse generale mostrano livelli di preparazione a dir poco imbarazzanti; che impediscono loro perfino la comprensione degli argomenti su cui sarebbero chiamati a esercitare la propria leadership. Vuoto tendente al pneumatico, da favorire l’emergere nella diretta controparte delle cosiddette “serve padrone”, figlie predilette del lassismo; che attraverso la conoscenza di un lessico incomprensibile ai politici e il controllo del cosiddetto “potere di agenda” fanno un po’ il bello e il cattivo tempo. Fino alla degenerazione patologica; come quelle sui valichi dell’Appennino o nelle lande degradate del nostro Mezzogiorno, di cui riferiscono le cronache.
Un male che non si annida solo nel mondo pubblico, visto il periodico ripresentarsi di tali serve padrone anche nell’associazionismo di rappresentanza, datoriale come sindacale (dai direttori paperoni ai segretari in crociera premio). Ovvia conseguenza di quella che è una comune origine di tali fenomeni: la classica “carenza del manico”.