Bravi son bravi, a suonare sanno pure suonare: il che non gusta mai. Simpatici il giusto, quel tanto che basta per scorgere un mare di ambizione. “Eureka” è il loro nuovo album: frutto del sudore di chi gioca non tanto per giocare ma mettendosi in discussione con le scarpe consumate e le idee chiare in tasca, al collo, pesanti come gli strumenti che colorano i 6 brani di quest’ultima uscita che celebra sì la felicità della scoperta ma non solo (“Sentiamo di aver trovato la formula giusta per questo progetto, un equilibrio finalmente stabile”).
E la curiosità che c’è dietro la scelta delle singole parole riguarda anche il loro nome, La Scala Shepard: concetto che ondeggia tra la musica (prima) e la psicologia (poi) scomodando i Beatles e arrivando a bussare dalle parti dei Pink Floyd. Non una sommatoria di influenze – nel loro caso – ma una dichiarazione di intenti (dicono sempre loro): “Ci hanno accostato spesso a gruppi come i Modena City Ramblers o la Bandabardò. Questo è un primo elemento che il pubblico non deve aspettarsi dalla nostra nuova produzione: ci sono ancora dei richiami a certa musica popolare, ma il folk è ormai solo un contorno della nostra musica”. L’esercizio insopportabile di chi guarda al presente, alle nuove realtà, prendendo in prestito gli occhiali dei bei tempi che furono, non è cosa che li riguarda, anzi: “Il primo disco è molto diverso dal secondo, non abbiamo pensato nemmeno per un secondo di mettere a paragone i due lavori. Anche perché, come attitudine naturale, guardiamo poco al nostro passato. Piuttosto tendiamo a concentrarci sul presente e cerchiamo di non guardare troppo al futuro per non farci influenzare dalle insicurezze che porta dietro”.
Descrivere la loro proposta – a prescindere dal caso specifico – mi provoca un insopportabile prurito già solo all’idea: la dimestichezza e la frequentazione potrebbero aiutarmi, mi renderebbero forse più orgoglioso e soddisfatto ma finirebbero per forza di cose per fuorviare voi. Perché alla fine una band, un artista, esistono in quanto tali, e la vecchia regola per cui ognuno di noi ha almeno 7 sosia nel mondo non vale in musica: dove le cose che valgono, che meritano di essere portate dietro, non si lasciano cogliere facilmente. A dir poco illuminante, in questo senso, è il confronto che loro stessi propongono con 3 mostri sacri sì, ma del cinema, della televisione e del teatro italiano: “Una di queste personalità è Carmelo Bene, una figura dal carattere molto italiano che ha lavorato tutta la vita per riuscire ad entrare al 100% nelle profondità della propria arte, la cui forma era in continua discussione, dove la ricerca stessa creava la ‘forma’. Altre due figure importanti per noi sono Troisi e Totò, due artisti nei quali troviamo una grande leggerezza, due motori comunicativi straordinari. I loro film sono un continuo susseguirsi di intuizioni, che a prima vista possono apparire caotiche, ma che in realtà risultano armoniose tra loro perché naturali e spontanee. Possiamo definirli i punti di riferimento che ci accomunano meglio non tanto, ovviamente, per l’aspetto musicale, quanto per il modo di intendere cosa vuol dire fare arte”.
E se non bastasse questo, il resto è presto detto: o meglio lo sarà tra meno di 1 mese. Già perché questa è un’anteprima che sono ben lieto di ‘ospitare’ ma a parlare – specie per i più diffidenti – poi sono sempre i fatti: “Suonare dal vivo è un po’ come la macchina della verità per qualsiasi gruppo. Sul palco non c’è trucco né editing che tenga, il valore di un progetto può emergere realmente solo in un concerto”.